La politica culturale di intrattenimento nelle Filippine

Pubblichiamo oggi un articolo sulla politica culturale nelle Filippine. L’autore, Carlo Rey Lacsamana è nato e cresciuto a Manila, e dal 2005 vive e lavora nella città di Lucca. Il suo scritto ci pare un documento interessante non solo per l’ampia gamma di riferimenti culturali a cui l’autore attinge, ma soprattutto perché descrive un fenomeno che riguarda e ha riguardato anche noi: il ruolo della televisione e degli organi di intrattenimento come strumenti atti a formare un’opinione pubblica assuefatta e passiva e a trasformare il popolo in un pubblico.

L’articolo analizza infatti come la politica culturale di uno dei paesi che ieri collocavamo nel Terzo mondo e che oggi vivono processi accelerati di sviluppo capitalistico, guardando politicamente al modello liberal-democratico americano, si basi in gran parte su una nuova cultura di massa, che ha i suoi perni nell’intrattenimento e nel consumo, allo scopo di distrarre le masse dalle sofferenze sociali che questi processi di sviluppo producono, non dando loro gli strumenti per ribellarsi (assai a proposito l’autore, ricalcando la celebre  espressione di Marx a proposito della religione, scrive che “l’intrattenimento è l’oppio del pubblico.”) Una nuova cultura di massa che si impone cancellando le precedenti culture indigene, svilendo la funzione dell’intellettuale come coscienza critica di una comunità e riducendo a spettacolo la competizione politica.

Qualche perplessità ci suscita il ricorso così frequente ad espressioni che rimandano all’idea di comunità nazionale e alla difesa della tradizione intesa come insieme di usanze e valori morali e comunitari minacciati dalla globalizzazione occidentalizzante, espressioni che nella storia politica dell’Europa appartengono agli apparati discorsivi del nazionalismo. Si tratta però, dobbiamo tenerne conto, di ambiguità e contraddizioni che nel Novecento hanno attraversato e continuano ad attraversare ancora oggi (si pensi al rinnovato protagonismo politico delle culture indigene nel Sud America)i movimenti che reclamano e combattono per avviare processi di liberazione intellettuale e materiale volti a costruire prospettive di autonomia rispetto al dominio occidentale sul mondo.

Dato il ruolo centrale che il testo assegna al mezzo televisivo, questo scenario potrà sembrare datato al lettore italiano, dal momento che la creazione dell’opinione pubblica passa oggi in buona parte attraverso il flusso di informazioni ed emozioni veicolate dai social networks. Se questo però vale in primo luogo per le fasce più giovani della popolazione, non si può certo dire lo stesso per quelle più anziane, per cui la televisione continua ad essere in molti casi il principale se non l’unico mezzo di informazione e di intrattenimento. A questo proposito, cogliamo l’occasione per segnalare nuovamente ai nostri lettori un articolo in cui ci siamo occupati delle strategie comunicative del programma televisivo Quinta Colonna, e della visione manipolatoria della realtà che queste veicolano. 

La politica culturale di intrattenimento nelle Filippine 

a cura di Carlo Rey Lacsamana

“Non vuole vedere lo spettacolo?”

“No grazie, per sognare e dar di fuori posso fare da solo. “

(Jose Rizal – Noli me tangere)

Prima  che nelle università delle Filippine venissero  introdotti  studi e analisi culturali del periodo postcoloniale, l’eroe nazionale Jose Rizal aveva già trattato in qualche modo, fuggevolmente, nel suo romanzo Noli me tangere, quella che Antonio Gramsci definiva “egemonia culturale”.

“La realizzazione di un apparato egemonico, nella misura in cui crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma della coscienza e dei metodi della conoscenza”(1), osservava Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere.

Nel capitolo “Il Diritto e la Forza” del suddetto romanzo di Rizal vi  è un passaggio che illustra un cambiamento essenziale nella coscienza del popolo, frutto del colonialismo: la conversazione tra il vecchio Tasio, lo studioso e Don Filippo, il Vice Sindaco. In essa si dice:

-Non vuole vedere lo spettacolo?

-No grazie, per sognare e dar di fuori posso fare da solo,

rispondeva lo studioso con una risatina sarcastica.

Ed ancora:

Ma a pensarci bene, non ha mai fatto attenzione al carattere del nostro popolo? Pacifico, ama gli spettacoli bellicosi e le battaglie sanguinose; democratico, adora imperatori, re e principi; irreligioso, si rovina  con i riti pomposi;  le nostre donne, così dolci per natura, delirano  quando una principessa brandisce una lancia… Sapete perché è così?

Il vecchio Tasio, turbato dal pensiero del graduale cambiamento di coscienza del suo popolo sotto il colonialismo, fornisce una cornice di riflessione davanti  alla crescente influenza dell’ intrattenimento nella nostra società odierna.  In essa, a dominare i valori tradizionali ed a sostituire le varie influenze culturali indigene vi è un pregiudizio culturale che scaturisce da  “un apparato egemonico”, radicatosi ormai nella struttura coloniale e imperiale. Quello che vediamo oggi è il prevalere di una fortissima componente della cultura di massa, che mina il carattere distintivo delle varie culture indigene locali  e che monopolizza e trasforma ampi settori della cultura con  un dilagante spirito di intrattenimento, a fine di lucro.

Chi scrive queste note sostiene che la cultura del divertimento imposto al pubblico è un prodotto di un’ideologia consumista, inventata dall’Occidente.  Non voglio sostenere che qualsiasi influenza straniera o esterna sia dannosa o malefica. Piuttosto il contrario. La generosa interazione di diverse culture delle varie società è indispensabile per la comprensione e lo sviluppo umano. Ma ciò che è stato imposto al pubblico, ciò che domina e persiste nella cultura contemporanea, che abbiamo acriticamente abbracciato, in generale è dannoso per la vita morale e intellettuale delle comunità.

Una spiegazione cronologica di come l’ intrattenimento moderno si è sviluppato nelle Filippine, secondo un modello occidentale di consumismo grossolano che ha inondato vari settori della cultura, non è qui esposto; mi limito, invece, a trarre un punto  di riferimento in quel particolare passaggio del romanzo di Rizal, per esprimermi contro una cultura esistente che non solo merita una critica seria, ma che dovrebbe essere sostituita da una cultura nazionale più generosa, umana e creativa. Una cultura che merita di essere chiamata, secondo le parole della scrittrice americana Susan Sontag, “espressione della dignità umana” (2).

L’ analisi del concetto di intrattenimento non può disinteressarsi del mezzo più diffuso che lo supporta, cioè la televisione, considerata il grande strumento della cultura  nazionale. Nelle Filippine,  guardare la televisione è ormai parte integrante della cultura popolare. Milioni di persone, giornalmente, assistono ai suoi programmi. Lo scopo  è quello di essere intrattenuti;  ed essere intrattenuti significa venire  consolati per le difficoltà della vita quotidiana.  Gli spettacoli di mezzogiorno e i drammi televisivi sono i favoriti. Essi sono l’incarnazione di ciò che è “divertente”. Quello che è divertente è semplicemente definito, con nozione vaga, come ciò che  fa accrescere la felicità generale del pubblico. Spesso sentiamo l’affermazione che gli animatori televisivi sono sullo schermo  per renderci felici. Per un paese come le Filippine, afflitto da gravi mali economici e sociali, l’intrattenimento è considerato come un modo di fornire, in altre parole, una distrazione dalla difficile realtà del presente.

Permettetemi di illustrare la forza persuasiva di distrazione sostenuta da un normale spettacolo del mezzogiorno: attori di bell’aspetto agiscono sul video, cantano, ballano, ci lusingano, ci sorridono… inventano falsi concorsi in cui soprattutto partecipa, come concorrente,  la povera gente; in tali concorsi quest’ ultima è costretta ad essere competitiva e ridicola (perché il più ridicolo ottiene il punteggio più alto dello spettacolo); le si chiede di ballare, cantare, saltare, urlare, o giocare secondo gli schemi decisi dai “padroni di casa”; e il vincitore si porta via il montepremi ambito.

Gli apologeti di questo tipo di intrattenimento lo difendono, oltre che come strumento di utile pubblicità, come un servizio reso ai poveri, ai quali viene dispensato il premio che è pur sempre una notevole quantità di denaro. Ma questa nozione impoverita di “servizio” ai poveri, attraverso l’intrattenimento, è possibile solo a costo della dignità personale dei concorrenti in questione, degradati, trattati senza riguardo come marionette. Una degradazione di questo genere non è unidirezionale. I presentatori televisivi e gli altri operatori coinvolti sono sviliti anch’essi,  sebbene in misura diversa. Paul Goodman, influente pensatore anarchico, nel suo libro rivoluzionario, Growing Up Absurd, ha denunciato la natura umiliante di questa impresa:

“gli uomini e le donne impiegate a cantare canzonette nelle pubblicità televisive sono  clown e manichini, che fanno smorfie, con parole e azioni. E in questa pubblicità, richiamo ancora una volta l’attenzione al fatto che  non è il problema economico della domanda in se stessa, non è il degrado della cultura popolare, ma l’aspetto umano rappresentato da questi esseri che lavorano come dei clown,  dagli scrittori e dagli sceneggiatori  che organizzano lo show, i quali, da essere umani pensanti, diventano degli idioti. Nonostante ciò, le emittenti e gli abbonati istigano a continuare in questo modo, pur sapendo ciò che succede”(3).

Il dramma di  questo settore è la convinzione  della bontà invariabile dell’ intrattenimento, da mantenere e rafforzare,  facendo credere allo spettatore passivo la necessità  di questa distrazione, benefica e indispensabile per fuggire dalla dura realtà. L’intrattenimento è un’ efficace “benda sugli occhi della gente” per impedirle di prendere consapevolezza dei problemi reali che riguardano la sua vita. Anche le questioni  importanti sono, in qualche modo, affrontate, sotto forma di intrattenimento. Il problema – ha osservato  il critico Neil Postman – “non è che la televisione ci presenta oggetti divertenti, ma che tutta la materia è presentata come intrattenimento“(4). Karl Marx, come noto, osservava che la religione era “l’oppio dei popoli”. Oggi, è il caso di dire, è l’intrattenimento  “l’oppio del pubblico”.

L’atomizzazione della società può essere stabilita in due modi. In un classico stato totalitario la paura  e la forza sono utilizzate per disarticolare la comunità. In uno stato democratico-capitalista, la  costante distrazione è il principale meccanismo per mantenere le persone lontane dalle problematiche pubbliche. Noam Chomsky, coraggioso intellettuale americano, ha scritto:

“Il controllo del pensiero è più importante per i governi che sono liberi e popolari, rispetto agli stati dispotici e militari. La logica è semplice: uno stato dispotico può controllare i suoi nemici interni con la forza, ma come lo stato perde questa arma, altri dispositivi sono necessari per evitare che le masse ignoranti interferiscano negli affari pubblici… il pubblico può osservare, ma   non partecipare, limitandosi a consumare  ideologia, come consuma i prodotti”(5). Ed il controllo del suo pensiero avviene attraverso l’intrattenimento.

La televisione, essendo il principale mezzo di informazione di un pubblico di massa eterogeneo è il migliore alleato degli Stati e delle compagnie private, per consolidare i loro interessi, in quanto trasforma ogni argomento di interesse pubblico nella forma dell’ intrattenimento. “Politica, religione, notizie, sport, istruzione e commercio”, osserva Postman “, sono stati trasformati in appendici congeniali dello spettacolo, senza che la gente se ne sia accorta e abbia protestato. Il risultato è che siamo diventati un popolo che si diverte sull’orlo del precipizio”(6).

L’invasione dell’intrattenimento nella cultura ha modificato non solo le abitudini e le attività dell’impegno intellettuale, ma anche l’immagine e la funzione degli intellettuali stessi. Mentre l’influenza della parola stampata si sta gradualmente marginalizzando, si assiste all’ uso crescente delle immagini come fonte di informazione e conoscenza ed allo spostamento dell’attenzione degli intellettuali verso i personaggi televisivi. Antonio Gramsci dichiarò che “tutti gli uomini sono intellettuali… ma nella società non tutti gli uomini hanno la funzione di intellettuali”. Il pubblico filippino ora guarda a personaggi televisivi come Kris Aquino, Boy Abunda, Vice Ganda, etc., ma anche  i politici si sforzano di avere una pari quantità di esposizione mediatica, come gli intellettuali. Anche se la gente normale non si cura del concetto di “intellettuale”,  questi personaggi celebri funzionano come tali a causa della loro autorità e influenza  sui media. Essi sono diventati le “fonti” di idee, di significati, di interpretazioni dei fatti, ed in loro si identifica il grande pubblico del XXI secolo. Il confronto di questo fenomeno attuale con la seconda metà del XIX secolo nelle Filippine –  quando un’esplosione di creatività e di produzione di idee senza precedenti  segnò una nuova era nella storia intellettuale e culturale del paese – viene così sottolineato dallo studioso filippino Resil Mojares:

“Nessun periodo della storia intellettuale delle Filippine è stato più produttivo e coerente come il 1880. Questo periodo ha visto la comparsa dei romanzi di Rizal, Noli me tangere (1887) e El Filibusterismo (1891), e la sua edizione critica del libro di Antonio de Morga, Sucesos de las Islas Filipinas (1890); i libri di Pedro Paterno, Trinidad Pardo de Tavera, e Isabelo de los Reyes; Marcelo del Pilar, La Soberania Monacal en Filipinas (1889) e La Frailocracia filipina (1889); Graciano di Lopez Jaena, Discursos y Articulos Varios (1891), e una massa importante di periodici e letteratura minore  che lo stesso Rizal ed altri hanno valorizzato e diffuso per formare una generazione di  intellettuali filippini che esercitasse un’autorità morale e civile e diffondesse, nel  paese,  la conoscenza ed il suo potere di emancipazione” (7).

Se Rizal ed i suoi contemporanei fossero vivi oggi, sarebbero costernati per la sostituzione di tali “autorità intellettuali”  con un sistema di intrattenimento senza cervello, con  un modello televisivo di performances spettacolari che non sviluppano il pensiero critico degli spettatori, bensì il consumo passivo di immagini in movimento.

A livello individuale, un motivo che attira verso l’ intrattenimento è dato dalla crescente tendenza narcisistica. Il narcisismo, nella sua accezione contemporanea, è il desiderio voyeuristico di vedere se stessi attraverso la lente elettronica dei vari mezzi di comunicazione: la propria immagine di sé  viene prodotta e misurata secondo gli standard superficiali dei mass media. I reality show, che affollano la televisione e  accrescono la nostra ossessione per una sorta di esibizionismo digitale, testimoniano gli stati narcisistici che si sviluppano in una società sempre più saturata dai media.

Il giornalista americano Chris Hedges ritiene che la nostra generazione sia caduta “nella tana del coniglio” delle allucinazioni  dettate da immagini spesso dominate dalla violenza e dalla pornografia elettronica. Il soggetto è  diventato (usando un’espressione di Hannah Arendt)  “atomizzato”, dopo essere stato risucchiato da  sistemi di informazione e di intrattenimento che si ispirano ad una fascinazione pruriginosa proveniente dall’America, dove spesso regna il cattivo gusto, la crudeltà e il culto fonoassorbente del sé.(8) Non è un’iperbole dire che stiamo vivendo in un periodo di voyeurismo senza precedenti, coinvolti nell’esperienza passiva di volere vedere e conoscere tutto ciò che crediamo esista nel mondo virtuale.

Il legame tra atteggiamenti narcisistici e pseudocultura fondata sul mito della  celebrità può essere definito come l’idolatria acritica di un personaggio mediatico, partorito dai mass media.

La trasformazione di celebrità in icone culturali, in eroi di culto (o modelli di ruolo) è evidente dal modo in cui le persone si identificano con esse. Le singole vite private sono amplificate come se fossero divenute questioni di interesse nazionale. Ogni dettaglio della vita privata di una celebrità viene trascinato davanti agli occhi del pubblico, come uno spettacolo. I personaggi prescelti dai media, avvolti in un alone di mito,  devono sembrare straordinari, speciali; devono divenire celebrità che formeranno una classe separata, diversa da quella degli individui normali. Per questo essi sono chiamati superstar, stelle come metafora: lontane, irraggiungibili, eleganti, piene di sé. Scarsa importanza è data al loro valore artistico, morale e intellettuale, alla loro cultura generale. Pur tuttavia, essi vengono inondati dall’adulazione popolare e godono di un immeritato riconoscimento di statura artistica.

L’intrattenimento ha prodotto anche  un potente attacco alla tradizionale politica elettorale, tanto che l’immagine o la presentazione del candidato conta più del contenuto del suo programma,  della sua capacità di realizzarlo, della coerenza del suo passato. Nelle Filippine, i criteri in base ai quali si determina il risultato  di un’ elezione politica si basano sull’intrattenimento, dove conta la presentazione del candidato più appariscente e più divertente per il gusto popolare, a prescindere dal suo valore. Una celebrità che decide di partecipare ad una competizione elettorale per una carica pubblica, inoltre, ha più possibilità di ottenere voti, rispetto ad un ordinario politico locale. Anche sul terreno cruciale della Politica, l’intrattenimento trionfa, finendo per banalizzare ciò che Sontag chiama “gli standard di serietà”. Nessuna meraviglia, dunque, se le opinioni del pubblico sulla politica corrispondono al modo di guardare uno spettacolo televisivo. Per ridurre la politica in intrattenimento si riduce la popolazione, agente storico, in spettatore passivo. Questa realtà ci riporta al vecchio tormento di Tasio: come abbiamo fatto a finire per amare il banale, il sensazionale, la vacuità, il falso, l’effimero?

L’implicazione principale del potere e della forza di persuasione dell’ intrattenimento, per un paese come le Filippine, è l’erosione delle altre risorse culturali alternative e benefiche, delle quali il nostro paese sarebbe altamente provvisto. I Filippini dispongono pur sempre  di enormi capacità date da un enorme patrimonio culturale. Le numerose isole, gli innumerevoli gruppi e sottogruppi indigeni, le comunità locali, ognuno è in possesso di una storia,  di una tradizione e di un ricco bagaglio di valori, di competenze, conoscenze e saggezza. È questa molteplicità e la diversità di visione del mondo indigeno che dobbiamo riscoprire, rilanciare e rinnovare in questo periodo pericoloso di mercantilismo deteriorato, che impone modelli di vita nei quali le persone sono ridotte a spettatori obbedienti, trasformati in consumatori atomizzati,  mentre l’ambiente viene considerato solo come una mera fonte di materie prime da sfruttare. Katrin de Guia, brillante antropologa filippino, sottolinea l’importanza dei valori contenuti nel termine, “kapwa” ( Kapwa significa essenzialmente unione e condivisione di un’ identità comune, affetto delle proprie radici – n. d.r.), in un articolo intitolato, ” I Valori degli indigeni filippini: una Fondazione per una cultura della non-violenza”.

In tale scritto si afferma che il valore fondamentale dell’ appartenenza al popolo filippino è “kapwa”. Questa idea “auto condivisa” apre il cuore e le porte dell’uno all’altro … “Kapwa” per i filippini esprime il concetto del  Tutto, che abbraccia il particolare fino nelle sue parti più isolate.

Una tale visione del mondo sarebbe utile nel nostro pianeta sovraffollato, dove dobbiamo imparare a tollerare l’altro e viverci insieme, per non dovere disporre dell’unica opzione delle armi. Meglio ancora, “kapwa” è l’orientamento inclusivo della personalità filippina, che insegna come unire e  collaborare, come migliorarsi ed aiutarci l’un l’altro.  Gli insegnamenti di “kapwa”  consentono di mettere in comune la forza degli uomini e lavorare insieme per giungere agli obiettivi condivisi. Insegna come ripartire equamente i profitti, contro  l’accaparramento ed il racket. Il senso della parola filippina “kapwa” è anche quello di assicurare che pure  il cuore sia pieno, non solo lo stomaco o il conto bancario”.

Ignorare il grande panorama culturale della realtà indigena porta a  limitare le potenzialità umane. Ignorare le nostre tradizioni culturali significa soccombere alle forze distruttive di una certa cultura occidentale materialistica che si muove inevitabilmente verso il collasso ambientale.

Conclusioni

La risposta alla domanda se la televisione stia contribuendo a creare una società più istruita e una cultura più profonda non può prescindere dal contenuto e dalla qualità dei suoi stessi programmi. Finché i critici e gli spettatori in generale, ignoreranno il deleterio potenziale pseudo culturale delle reti private, che hanno il  monopolio di questo strumento di comunicazione, esse continueranno senza sosta nel loro scopo primario di accumulare profitti, basandosi sui programmi “spazzatura” che divertono gli spettatori, ma che ne distruggono l’intelligenza. Sarebbe ingeneroso chiedere l’eliminazione della cultura del divertimento in futuro, ma si deve sperare ed incoraggiare ogni tendenza alternativa, costruttiva e creativa (per altro già in atto), sia a livello locale che nazionale. Sono in corso molti progetti artistici avviati dall’attivismo della base e dai movimenti giovanili di diverse comunità, che si  presentano come una sfida nei confronti della passività e del cinismo del settore dello spettacolo. Un altro importante e urgente strumento è la difesa dello spirito critico, particolarmente verso i  media, perché – spiega Neil Postman -” solo attraverso una presa di coscienza profonda e inesauribile della struttura e degli effetti delle informazioni, attraverso una demistificazione del supporto, ci viene qualche speranza per guadagnare una certa misura di controllo sulla televisione o sul computer, o su qualsiasi altro mezzo. “

I valori e gli atteggiamenti che l’industria dell’intrattenimento sta producendo dovrebbero causare preoccupazione per ogni cittadino che ama le tradizioni intellettuali e morali del suo paese, le quali sono state costruite sulla variegata fusione di culture e comunità.  Katrin de Guia sottolinea l’importanza della lotta culturale di chi ci ha preceduto nella storia:

“Nella società filippina di oggi, vi è la necessità per gli uomini e le donne di attuare  ciò in cui credono e resistere all’erosione culturale che sommerge il paese, dopo l’importazione su larga scala di altri stili di vita. Necessari per la sopravvivenza del Paese sono gli individui che hanno la forza di ispirare le generazioni future a costruire una nazione filippina di cittadini, la cui visione del mondo sia alimentata dalla saggezza indigena del passato e dalla visione di unità globale per il futuro”.

L’abbandono dell’ “elemento indigeno” (termine coniato  dallo studioso Clemente Zulueta durante la guerra filippino-americana),  a seguito della egemonia della Chiesa spagnola nelle isole, è ciò che ha spinto Rizal ed i suoi contemporanei ad avviare una rivoluzione culturale che recuperasse l’identità filippina attraverso l’impresa laboriosa e spesso fatale di costruzione della nazione. Oggi, ogni lotta culturale esistente deve essere finalizzata a respingere l’ infiltrazione dell’ intrattenimento nei vari campi della vita sociale e culturale, riprendendo le lotte incompiute dei nostri antenati, cosa che Paul Goodman ha definito come “rivoluzioni mancate dei tempi moderni”. Per riprendere il lavoro non concluso nel passato e rendere onore ai valori ed ai sogni che i nostri antenati hanno coltivato. Per riconoscere la realtà indigena che rappresenta i valori tradizionali distrutti oggi dal consumismo senza anima.

Per dare concretezza alle aspirazioni nazionali, ridotte ora a desideri egoistici e superficiali, abbiamo bisogno di una cultura che valorizzi gli esseri umani e la comunità come “kapwa”; che rispetti, conservi e protegga le tradizioni indigene, e coltivi le capacità naturali dei giovani. Una cultura che sia “audace e passionale.” Le possibilità rivoluzionarie in tutti i settori della cultura sono enormi. Paul Goodman, ha commentato a  proposito: “Nelle arti e nelle lettere, c’è un giusto equilibrio tra gli standard sociali consueti e le novità creativa,  tra intrattenimento popolare e esperienza estetica. Poi, per compensare Hollywood e Madison Avenue, dobbiamo avere centinaia di nuovi piccoli teatri, piccole riviste e giornali di opinione dissenzienti che abbiano possibilità di circolazione; perché è solo in modo tale che le cose nuove sono in grado di svilupparsi e trovare la loro strada nel mondo”(9).

Il punto è quello di ridefinire l’intrattenimento ed i valori che esso rappresenta, e creare, una volta per tutte, con coraggio, attraverso la solidarietà,  delle alternative locali che sconfiggano  e ridicolizzino i difensori ciechi del TINA (espressione che significa: non ci sono alternative = There Is No Alternative; n. d.r.) che sono soggiogati dal mercato della cultura. Per una tale impresa, immensa e scrupolosa, il nostro paese avrà bisogno degli sforzi collettivi di giovani uomini, di giovani donne e delle loro comunità, come suggeriva Rizal nelle ultime pagine del suo secondo romanzo El Filibusterismo. Forse, queste sono le pagine più accorate, disperate di fronte ad un senso della morale agonizzante; sono i messaggi più strazianti presenti in tutti gli scritti di Rizal:

“Dove sono i giovani che dedicheranno la loro innocenza, il loro idealismo, il loro entusiasmo per il bene del paese? … Dove siete, giovani uomini e giovani donne, che dovevate incarnare in voi stessi la forza vitale, che è stata succhiata dalle nostre vene: gli ideali puri sono cresciuti macchiati, nella nostra mente; l’entusiasmo di fuoco è stato spento nel vostro cuore? Vi aspettiamo, venite perché noi vi aspettiamo! “

Note:

  1. The Antonio Gramsci Reader, p. 192 chapter 2 (Structure and Superstructure)
  2. Susan Sontag, At The Same Time, p. 147
  3. Paul Goodman, Growing Up Absurd, p. 32
  4. Neil Postman, Amusing Ourselves to Death, p. 87
  5. Noam Chomsky, Force and Opinion, Z Magazine (online)
  6. Amusing Ourselves to Death, pp. 3, 4
  7. Resil Mojares, Brains of The Nation, p. 451
  8. Chris Hedges, The Illussion of Freedom, truthdig.com
  9. Growing Up Absurd, p. 209

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