Opportunità e rischi dei referendum sociali

L’anno che abbiamo davanti sarà un anno di referendum. Il primo round si avrà con quello costituzionale del prossimo ottobre mentre nella prossima primavera dovrebbe essercene uno sulla nuova legge elettorale (l’Italicum) oltre a una vasta schiera di quesiti abrogativi di parti importanti di leggi cardine del governo Renzi come la Buona Scuola, il Jobs Act e lo Sblocca Italia. Non mancherà inoltre un nuovo quesito sulle trivellazioni. Quest’ultimo gruppo di referendum, per cui si stanno raccogliendo le firme in queste settimane, va sotto il nome di “referendum sociali”.

Dato l’assoluto rilievo della posta in gioco, vorremmo proporre alcune riflessioni sulle opportunità e i rischi dello strumento referendario. Riflessioni che nascono dall’esito dell’ultimo referendum del 17 aprile sulle trivelle e, più da vicino, da una recente riunione in cui abbiamo avuto modo di confrontarci nel merito dei quesiti abrogativi della Buona Scuola. In appendice alla nostra riflessione, pubblichiamo il calendario delle date in cui sarà possibile firmare per i referendum e un intervento di Rino Capasso dei Cobas che illustra più nel dettaglio i quattro quesiti della legge 107/2015 (la cosiddetta “Buona Scuola”).

Le tornate referendarie, specie negli ultimi anni, sono state sempre più considerate come le ultime e le uniche occasioni di cui la “società civile” dispone per affermare le proprie istanze di contro alla tendenza a ridurre i diritti e gli spazi di democrazia e partecipazione. A fronte di uno scollamento sempre più ampio tra i cittadini e i partiti, tra la società e la democrazia rappresentativa, era dopotutto facilmente prevedibile che le energie di molti attivisti venissero dirottate verso uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che ancora rimangono in questo paese.

Naturalmente siamo favorevoli e anzi vorremmo allargare gli spazi di partecipazione e di democrazia diretta, il modello di società che puntiamo a costruire si basa proprio su questo principio. Non possiamo però non mettere in luce alcuni rischi e criticità dovute al fraintendimento di questi concetti nell’ambito dell’istituzione referendaria e della congiuntura politica che viviamo in questo momento in Italia.

Salvo il caso del referendum su acqua e nucleare del 2011, praticamente tutti i referendum abrogativi degli ultimi 20 anni sono andati perduti per mancato raggiungimento del quorum. Si è cioè rivelato illusorio il tentativo di politicizzare e di “attivare” la maggioranza della società scegliendo come solo campo di battaglia quello dell’opinione pubblica. L’eccezione del 2011 si spiega infatti con il terrore scatenato dall’incidente alla centrale nucleare di Fukushima da un lato e dalla presenza di un ciclo di lotte nel mondo della scuola e dell’università (quello del triennio 2008-2010) che ancora non si era esaurito e che ha agito come spinta propulsiva. Ma la tendenza generale è tutt’altra.

Non c’è nemmeno bisogno di andare molto lontano nel tempo, basta guardare al referendum sulle trivelle del 17 aprile scorso. In quell’occasione demmo indicazione di votare Sì, in un articolo che comunque voleva mettere in guardia contro i facili entusiasmi e gli eccessi di fiducia in uno strumento che non dà alcuna garanzia circa il rispetto di un eventuale esito favorevole 

Sappiamo come è andata. Certo, va detto che la campagna del comitato referendario è stata in gran parte boicottata dai principali organi di (dis)informazione e che la natura tecnicistica del quesito, nonché la sua assai limitata portata giuridica, non hanno certamente incentivato una partecipazione di massa alle urne. Da qui lo scoramento, i luoghi comuni sull’ignoranza e la sudditanza degli italiani, e il solito, immancabile ciclo depressivo della “sinistra” che si lecca le ferite invece di fare autocritica e di mettere in questione la propria insufficienza, la propria incapacità di leggere la realtà in termini materialistici. Gli unici termini che permettono di comprenderla in modo tale da poterla agire, invece che di sentirsene impotentemente sconfitti e sopraffatti.

Ci pare che l’equivoco principale attorno alle potenzialità dei referendum sia stato messo in luce all’indomani del voto del 17 aprile da un contributo apparso sul blog del Collettivo Militant. I compagni romani, che da sempre si distinguono per la grande capacità critica nei confronti della prassi politica dei movimenti sociali, e che spesso eccellono per quello che, ahinoi, rischia di essere quasi un genere letterario (“l’analisi della sconfitta”) ci sembra che centrino il nodo della questione: e cioè l’illusione che tramite i referendum si possano spostare i rapporti di forza; mentre invece essi si limitano a fotografare quelli già esistenti. Rapporti che, se sono sfavorevoli a chi vuole affermare una serie di diritti, non solo divengono palesi e rivelatori di una debolezza, ma rischiano anche di vedersi legittimati (“la maggioranza non ha votato o ha votato contro di voi e le vostre ragioni, rassegnatevi”).

Torniamo adesso ai referendum che ci stanno davanti. Lasciando da parte il referendum costituzionale, non certo per la sua scarsa importanza (rappresenta anzi uno snodo politicamente decisivo: vi avevamo dedicato una riflessione a parte) ma per le sue caratteristiche peculiari (la mancanza di quorum dovuta al suo carattere confermativo invece che abrogativo, il forte investimento politico che Renzi sta facendo e farà su questa data), torniamo invece ai referendum sociali.

Un paio di mesi fa ci interrogavamo insieme agli studenti del Casl e agli insegnanti dei Cobas sullo stato delle lotte nel mondo della scuola. In quell’occasione dovevamo purtroppo constatare il sostanziale riflusso di quella potente opposizione che il corpo docente era riuscito a mettere in campo contro la riforma renziana. La testimonianza che alcuni compagni che lavorano nel mondo della scuola ci hanno dato nell’ultima assemblea, ci parla di una diffusa sensazione di scoramento, rassegnazione, paura. Il referendum diventa quindi una sorta di “ultima spiaggia”, di ultima possibilità per risvegliare le lotte.

Inutile dire che in questo quadro desolante le responsabilità dei sindacati confederali sono enormi. Siamo purtroppo lontanissimi dal livello di mobilitazione e di conflitto che le piazze francesi sono state capaci di esprimere in ben 3 mesi di mobilitazione contro la Loi travail. Là si bloccano le raffinerie e le centrali nucleari, qua c’è la raccolta firme della Cgil. Ciò detto, proviamo a non cadere nel disfattismo e a riflettere su quello che possiamo fare per uscire dall’attuale situazione di impotenza e invertire i rapporti di forza.

Avere come orizzonte una scadenza referendaria, nonostante i suoi limiti, può essere un’occasione da sfruttare se (e solo se) ci si rapporta ad essa come un mezzo utile a convogliare e sancire un rifiuto che deve essere preparato, organizzato e affermato già da prima. Vale a dire, cioè, se ci si impegna a giocare la partita non solo sul piano del convincimento dell’opinione pubblica, ma su quello dell’organizzazione pratica del conflitto. Si tratta cioè di individuare degli obiettivi da colpire.

Pensiamo che in questo senso l’alternanza scuola-lavoro sia il punto centrale su cui fare leva, dato anche il suo carattere di ponte tra le due principali riforme renziane, quella della scuola e quella del lavoro. Si tratta di una novità a cui ancora a molti sfugge la portata. Stiamo parando di centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze che ogni anno andranno a svolgere duecento ore (200!) di attività lavorativa gratuita presso le imprese. Una quantità così grande di ore sottratta alla formazione in classe non solo snatura, specie nei licei, il ruolo della scuola pubblica, instillando fin da subito nei più giovani una pedagogia dell’autosfruttamento spacciandolo per autovalorizzazione, ma rischia di andare ad incidere sui livelli occupazionali delle aziende. Perché infatti tenere a libro paga dei lavoratori se c’è un esercito di giovani sempre pronto a fare gratis quello che oggi qualcuno svolge in cambio di un salario? Si rischia veramente di arrivare al paradosso del genitore che perde il posto di lavoro per colpa del figlio che va a “fare esperienza” nella sua stessa azienda.

L’alternanza scuola-lavoro rappresenta l’ultimo stadio di un processo sistematico di abbassamento del costo del lavoro che tramite stage e tirocini sottopagati e per finire vero e proprio lavoro gratuito (paradigmatica la vicenda di Expo 2015), ha determinato la compressione dei salari e la perdita di potere contrattuale per tutto il lavoro dipendente. Già in diverse città, tra cui la vicina Firenze si stanno stringendo accordi tra gli istituti scolastici, le Camere di Commercio e le locali associazioni degli industriali(contributo dei Clash City Workers qui)

Pensiamo che anche sul nostro territorio dobbiamo tenere gli occhi aperti. Chi sono le aziende che beneficeranno maggiormente dell’alternanza scuola-lavoro? A che tipo di condizioni contrattuali lavorano i loro dipendenti? Sono aziende che tutelano l’occupazione o invece licenziano e ricorrono alla cassa integrazione?

Domande che dobbiamo cominciare a porci e che dovremo porre anche al resto della cittadinanza, per creare un fronte ampio che veda insieme lavoratori, studenti e genitori, allo scopo di contrastare e dove possibile sabotare l’alternanza scuola-lavoro.

La partita dei referendum si può vincere, ma solo se è sostenuta da dalle lotte reali capaci di portare avanti delle rivendicazioni che incidano sul piano della dignità e dei bisogni, delle lotte e delle rivendicazioni che individuino degli obiettivi da colpire.

Per questo invitiamo ad andare a firmare per i referendum sociali, a condizione che lo si faccia fin da ora preparandosi ad agire su altri terreni, i soli che possono ribaltare gli attuali rapporti di forza e permetterci davvero di vincere.

(Calendario dei banchetti per firmare i referendum sociali qui)

Di seguito il contributo di Rino Capasso dei Cobas:

QUATTRO QUESITI REFERENDARI CONTRO LA LEGGE 107 E LA CATTIVA SCUOLA

La straordinaria mobilitazione della scorsa primavera ha espresso forse la più forte conflittualità contro le politiche neoliberiste del governo Renzi, con il 70% di scioperanti il 5 maggio, il boicottaggio del 25% dei quiz Invalsi e lo sciopero degli scrutini. L’obiettivo centrale era il ritiro del ddl sulla Buona Scuola, in quanto inemendabile, e lo stralcio delle assunzioni dei precari con un decreto legge. Ma nell’elaborazione dei quesiti referendari siamo partiti dal presupposto che non era possibile chiedere l’abrogazione dell’intera legge perché la Corte avrebbe sicuramente giudicato inammissibile il quesito, in quanto non omogeneo e non univoco, perché la 107 regolamenta materie diverse tra di loro e l’elettore poteva essere d’accordo per l’abrogazione, per es., del premio di merito, ma contrario all’abrogazione dell’obbligo della formazione: la sua libertà di voto sarebbe stata coartata, dovendo esprimersi con un Si o con un No su entrambe le questioni contemporaneamente. Inoltre, sarebbe stato politicamente assurdo chiedere anche l’abrogazione delle assunzioni!Si trattava, quindi, di scegliere un numero limitato di quesiti che, considerati unitariamente, lanciassero un chiaro messaggio politico di critica radicale al modello di scuola della 107: aziendalizzazione della scuola pubblica, gerarchizzazione, competizione individuale tra i docenti, subordinazione della didattica agli interessi imprenditoriali e concorrenza tra le scuole alla ricerca di finanziamenti con modalità privatistiche.

I primi due quesiti sono tesi ad abrogare i due più importanti super poteri dell’Uomo solo al comando: la chiamata nominativa dei docenti da parte del DS per incarichi solo triennali anche non rinnovabili; il premio del c.d. merito individuale, Nel primo caso la 107 assegna al DS il potere discrezionale di scegliersi i docenti della sua scuola, creando per i neo assunti, ma a regime anche per tutti i soprannumerari e i docenti che fanno domanda di trasferimento, una situazione che con un ossimoro potremmo definire da “precari di ruolo”. La non rinnovabilità dell’incarico mette i docenti in una condizione di continua ricattabilità sia nell’ambito degli organi collegiali, sia nella gestione concreta del lavoro in classe. Con l’abrogazione, la norma di risulta prevede che sia l’ USR a provvedere “al conferimento degli incarichi ai docenti” con le modalità consuete, basati su criteri oggettivi e predeterminati.

Il secondo quesito è incentrato sull’abrogazione del premio di merito e del potere del DS di assegnarlo valutando il lavoro in classe dei docenti (e i relativi risultati) e di tutto quello che ne consegue. Quindi, si chiede l’abrogazione della competenza del Comitato di valutazione di individuare i criteri per la valutazione del merito e, di conseguenza, della presenza nel Comitato stesso di quelle componenti che erano previste nella 107 solo per quella competenza:studenti, genitori e esperto esterno (di fatto un altro DS). Così, il Comitato tornerebbe alla composizione e alle competenze previste dal TU: docenti scelti dagli organi collegiali e DS che esprimono un parere sull’esito del periodo di prova dei neo assunti.

Resterebbe in vigore lo stanziamento del fondo di 200 milioni all’anno e la natura di salario accessorio della relativa erogazione, ma abrogando la destinazione alla valorizzazione del merito. In tal modo, anche per effetto dell’articolo 31 del CCNL, la norma di risulta non sarebbe contraddittoria perché resterebbe normato l’utilizzo del fondo tramite il rinvio alla contrattazione integrativa nazionale. La destinazione sarebbe tesa alla valorizzazione del personale docente anche precario, senza alcun riferimento al merito: se ci riuscissimo con la mobilitazione potremmo ottenere anche un aumento in paga base uguale per tutti, vista la perdita del 30% del potere d’acquisto dei ns salari dal 1990 ad oggi. D’altronde, abrogare anche lo stanziamento del fondo avrebbe comportato alti rischi di inammissibilità perché lo stanziamento è previsto anche dalla legge di bilancio che non può essere oggetto di referendum ex art. 75 2° c. Cost.

Dovremo condurre un’efficace battaglia politico culturale per far capire che i primi due quesiti non sono referendum corporativi “per i docenti”, ma per il modello di scuola previsto dalla Costituzione. Non è che tra i docenti non esistano differenze anche qualitative (come tra tutti gli esseri umani), ma il problema è: la scuola ha bisogno di competizione individuale o di collegialità e cooperazione effettive? Inoltre, nello scenario peggiore di applicazione della chiamata nominativa e della valutazione del merito avremmo la prevalenza di fattori lobbystici e/o personalistici, se non addirittura da servilismo e clientelismo. Ma anche ipotizzando che il DS riesca a scegliere veramente i più bravi avremmo un peggioramento qualitativo. È prassi costante che nella scuola pubblica vi siano diverse idee sulla programmazione didattica, sull’articolazione dei contenuti, sulle diverse teorie o scuole di pensiero nell’ambito dei vari saperi disciplinari, sul bisogno di semplificare l’approccio o di abituare alla complessità, sul ragionare per modelli, magari alternativi tra di loro, sull’approccio induttivo o deduttivo, sui criteri di valutazione. Se il DS – che presiede gli scrutini, il Collegio ed è membro del Consiglio d’istituto – deve giudicare il lavoro di un docente è perlomeno possibile, se non probabile, che una buona parte dei docenti assimilerà le idee, i criteri di valutazione di chi dovrà giudicarli! Pensiamo, per esempio, al dibattito su darwinismo e creazionismo oppure alla contrapposizione tra classici, marxisti, liberisti e keynesiani in Economia politica. È chiaro che l’effetto sarebbe una drastica riduzione del pluralismo, della libertà di insegnamento e della democrazia collegiale! Ma la Costituzione ha dato centralità alla scuola pubblica perché essa garantisca il pluralismo, perché lo studente nel corso dei vari anni possa venire a contatto con diverse visioni dei vari saperi disciplinari, al contrario di quello che accade nelle scuole di tendenza o peggio ancora nelle scuole di mercato, che soddisfano i bisogni dei clienti vendendo titoli di studio e non istruzione.

Gli ultimi due quesiti attengono al rapporto con il mondo delle imprese. Il terzo richiede l’abrogazione dell’obbligo di almeno 400 ore nel triennio di alternanza scuola lavoro per i tecnici e professionali e di almeno 200 ore per i licei. La formazione aziendale comporta il rischio della subordinazione degli obiettivi didattici e culturali della scuola pubblica agli interessi imprenditoriali. È chiaro che gli studenti devono essere in grado di inserirsi nel mondo del lavoro, ma forniti di strumenti cognitivi che li mettano in grado di capire in quale contesto si collocano, per chi si produce, per quali scopi, in quale modo. Invece, la formazione aziendale si caratterizza nel migliore dei casi per l’apprendimento rapido di nozioni o saper fare decontestualizzati, da smettere rapidamente per acquisire altri saperi e saper fare analoghi, come è tipico di una forza lavoro flessibile e precaria. Poi, nel peggiore e più diffuso dei casi, essa è lavoro gratuito (come già succede spesso con gli stage aziendali dei tecnici e dei professionali) o sottopagato come accade per la sperimentazione dell’apprendistato (gli apprendisti sono sotto inquadrati di due livelli).

Ma un’abrogazione di tutta la normativa sull’ASL avrebbe comportato alti rischi di inammissibilità e significativi problemi di consenso politico. Per cui, abbiamo scelto di focalizzare l’abrogazione solo sull’assurdo obbligo di un monte orario così impegnativo che rende impossibile anche la selezione di quei soggetti che garantiscono una formazione organica con il lavoro in classe. In tal modo non avremmo una drastica riduzione delle ore di lezione e soprattutto l’ASL verrebbe più facilmente ricondotta ad un’attività complementare e non sostitutiva dell’attività curriculare di insegnamento.

Il quarto quesito riguarda le erogazioni liberali alle singole scuole sia pubbliche che paritarie, per le quali la 107 prevede una consistente incentivazione fiscale con un credito di imposta del 65% nel 2015 e 16 e del 50% nel 2017. Con una sapiente operazione di taglio e cucito resta in vigore il credito d’imposta che è materia fiscale che non può esser oggetto di referendum, ma viene abrogato la destinazione alle singole scuole, per cui la donazione andrebbe al sistema nazionale di istruzione, che poi li assegna alle scuole secondo i criteri generali di ripartizione, ma senza la scelta della scuola da parte del donatore. Quindi, verrebbe meno una modalità privatistica di finanziamento per cui le scuole sarebbero in competizione tra loro per accaparrarsi finanziamenti sul mercato, anche da parte di imprese, con le conseguenze didattiche immaginabili nella logica di mercato del do ut des. Non avremmo, inoltre, scuole di serie A di serie B in base alla provenienza socio economica degli studenti. Ma soprattutto non scatterebbe un vero e proprio favore per le scuole private che potrebbero usare meccanismi elusivi facendo risultare come donazioni una parte delle spese di iscrizione. Infatti, se per es. la spesa effettiva fosse di 5.000 € si potrebbe farne risultare come tale solo 2100, in modo da sfruttare al massimo la detrazione di imposta del 19% di 400 €, e far risultare i 2900 € residui come donazione con un risparmio fiscale di 1885 €. Il risultato sarebbe un risparmio fiscale complessivo di 2.285 €, per cui la famiglia che iscrive il figlio alle paritarie pagherebbe di fatto solo 2715 €: quasi la metà delle effettive spese di iscrizione sarebbe pagata dallo Stato, cioè da tutti i contribuenti!

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