A chi serve la governabilità? Una riflessione in vista del referendum costituzionale.
C’è una parola che da alcuni anni ricorre frequentemente sulla bocca di politici e politicanti, tecnocrati ed economisti, intellettuali galoppini e giornalisti. È la parola che promette un avvenire migliore per tutti, pace, prosperità, progresso e stabilità. Questa magica parola, è governabilità.
Come tutte le parole che vengono pronunciate talmente di frequente, un po’ ovunque, come il prezzemolo, anche la parola governabilità ha finito per essere un guscio vuoto da accettare acriticamente, la cui bontà e necessità viene data per ovvia e scontata. Ed è proprio in nome della governabilità, favorita dalla sua riforma, che il premier Renzi inviterà gli italiani a votare Sì al referendum del prossimo ottobre.
A fronte di un concetto così acriticamente ed entusiasticamente sbandierato da più parti, scegliamo di fare la parte dei perplessi (Renzi direbbe dei “gufi”) e proviamo a porci questo semplice interrogativo: di cosa parliamo quando parliamo di governabilità?
Partiamo dal piano più semplice, e cioè quello linguistico. Nel vocabolario Zingarelli (ed. 2008) possiamo trovare questa duplice definizione dell’aggettivo “governabile”: “che si può governare”, “che si governa con facilità”. E immediatamente sotto, alla voce “governabilità”: “possibilità di governare un paese in modo stabile e durevole”.
Già queste brevi e sintetiche definizioni, per chi le osservi bene, sono assai rivelatorie. In particolare, rimandano tutte alla centralità di uno specifico punto di vista, quello del soggetto che agisce su un determinato oggetto, alla “facilità” con cui compie questa operazione, alla sua efficacia e implicita positività (“in modo stabile e durevole“).
Ora, poiché sia l’aggettivo che il sostantivo derivano dal verbo governare (verbo la cui etimologia, risalente al greco e passante per il latino, rimanda alla capacità di reggere il timone della nave), che è un verbo transitivo, dovremmo chiederci chi sono, in questo caso, il soggetto e il complemento oggetto. Vale a dire: chi governa chi?
Una domanda che spesso si tende a eludere. Si tratta del resto di una tendenza più generale propria del linguaggio dell’economia e del pensiero unico contemporaneo. Lo hanno ben evidenziato in un loro studio Franco Moretti e Dominique Pestre in un saggio molto interessante dall’eloquente titolo “La neolingua della Banca Mondiale. Analisi semantica e grammaticale dei rapporti della World Bank dal 1946 al 2012” ( online è disponibile solo la versione inglese , lo studio è stato però tradotto ed edito in italiano nell’Almanacco di filosofia della rivista Micromega, nel numero 2/2015, pp. 181-211, da cui traiamo i passi qui citati). Applicando i protocolli di analisi dei corpora linguistici, i due autori (un critico letterario il primo, uno storico della scienza il secondo) registrano il numero di occorrenze di determinati termini, aree semantiche, tendenze strutturali della neo-lingua del “finanzcapitalismo”, e attraverso una serie di grafici ci mostrano le profonde trasformazioni che questo linguaggio ha subito, la visione del mondo che esso veicola. Neanche a dirlo, una delle parole la cui occorrenza è cresciuta vertiginosamente negli ultimi decenni è governance, parente stretta della nostra governabilità. A proposito di questo termine, i due autori scrivono (p. 189):
“Nella sua irresistibile ascesa, governance è stata invariabilmente associata a parole positive, se non addirittura euforiche: buono, riforme, aiuto, crescita, sforzo, capacità, trasparenza, educazione, efficace/efficacia, progresso, stabilità, protezione, salute, accesso, implementazione, umano, giusto, sostenibile, forte, migliore, superiore e massimo. […] Insomma, a differenza di governo – che può essere buono o cattivo o anche pessimo – la governance può solo essere buona. È difficile trovare un altro vocabolo del gergo politico che abbia una valenza altrettanto univoca.”
Tra i fenomeni linguistici che i due studiosi rilevano maggiormente nella loro ricerca, c’è la fortissima tendenza a trasformare frasi di senso compiuto, denotanti situazioni precise in cui dei soggetti agiscono su un oggetto (vi esercitano un potere, lo trasformano, producono fatti) in termini astratti e assoluti, privi di soggetto e oggetto. Il risultato di questa trasformazione è decisamente non piccolo (p. 201):
“Questa ricorrente metamorfosi delle forze sociali che diventano astrazioni, trasforma i Rapporti della Banca mondiale in documenti stranamente metafisici, i cui protagonisti sono spesso non gli agenti dell’economia ma i principi – e principi di natura così universale che opporvisi è impossibile.”
E poco dopo (p. 202):
“Le sostantivazioni restano insolitamente frequenti perché hanno <<funzionato>> in molti modi interdipendenti: hanno nascosto il soggetto delle decisioni, eliminato le alternative, attribuito alle misure politiche scelte un alone di elevati principi e di immediata realizzazione. La loro astrazione riecheggia perfettamente un capitale che diventa a sua volta sempre più avulso dal territorio; […] la loro ambiguità permette un’infinità di piccoli adeguamenti che mantengono la pace nell’ordine mondiale.”
L’uso che oggi da più parti viene fatto della parola governabilità (la bontà dell’oggetto non viene quasi mai messa radicalmente in discussione e sottoposta ad aperta opposizione; al più se ne ridimensiona il carattere prioritario) sembra rientrare pienamente in quei fenomeni che Pestre e Moretti descrivono nel loro saggio. Torniamo dunque alla questione del referendum di ottobre e proviamo a fare un po’ di luce nella nebbia degli interessi che si annidano dietro il feticcio della governabilità.
Tra le motivazioni che sentiamo maggiormente ripetute sui giornali, da parte dei sostenitori del Sì al referendum di ottobre, c’è la convinzione (corretta) che la riforma del governo Renzi semplifichi l’iter legislativo, che l’accentramento dei poteri nelle mani del governo favorisca la stabilità del sistema, che una legge elettorale di tipo maggioritario come l’Italicum (che va vista come un complemento organico alla riforma costituzionale) favorisca la governabilità. Tutte cose che l’attuale Costituzione del 1948 (assai attenta all’equilibrio fra i diversi poteri dello Stato onde evitare ricadute nel fascismo) impedirebbe o comunque non garantirebbe.
Per la verità non ci pare che la Costituzione abbia impedito al governo Renzi di rottamare una lunga serie di diritti sociali e di approvare leggi antipopolari come il Jobs Act e la “Buona Scuola”. Ma è sicuramente vero che, qualora la riforma in questione venisse approvata, questo processo di demolizione sarebbe ulteriormente accelerato e facilitato, nell’ipotesi in cui il blocco “moderato” (Pd e i resti del centro-destra) dovesse confermarsi al governo del Paese nei prossimi anni.
A chi serve dunque la governabilità? A chi interessa? A chi è utile? Queste sono le domande che dobbiamo porci. E le risposte sono eloquenti. In primo luogo Confindustria, che per bocca del neo-presidente Vincenzo Boccia si è schierata per il Sì soltanto poche settimane fa. Ma c’è un antecedente ancora più eloquente, a cui è importante fare riferimento per porre l’appuntamento referendario di ottobre in un’ottica più ampia di quella nazionale, e cioè quella europea. In un rapporto del 28 maggio 2013 intitolato “Aggiustamenti nell’area euro”, il fondo di investimento J.P. Morgan deplorava come le riforme economiche richieste dall’Unione Europea procedessero a rilento nei paesi del Sud Europa (i PIIGS”: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), riconducendo questa lentezza al carattere troppo democratico e antifascista delle costituzioni di questi paesi. Nessun complotto, tutto nero su bianco, alla luce del sole, tra pagina 12 e pagina 13:
“I sistemi politici situati nella periferia [dell’area Euro] vennero instaurati in seguito a una dittatura, e furono definiti da quell’esperienza. Le loro costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che i partiti di sinistra ottennero dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici attorno alle aree periferiche manifestano tipicamente molte delle seguenti caratteristiche: governi deboli; Stati centrali deboli nei confronti delle regioni, protezione costituzionale dei diritti del lavoro; sistemi di costruzione del consenso che incoraggiano il clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti non graditi vengono fatti allo status quo.”
La risposta ai nostro interrogativo (a chi e a che cosa serve la governabilità) sta tutta in queste poche righe: la governabilità serve a distruggere la democrazia, a far approvare le politiche neoliberiste e di austerità che annientano il welfare, comprimono i salari, producono recessione, impoverimento e perdita di diritti. E serve a far approvare tutte queste cose bypassando le proteste e la rabbia della popolazione.
Si dice che l’Italia è un paese che ha bisogno di recuperare credibilità internazionale, specie di fronte all’Unione Europea e che dunque ha bisogno di un governo forte e stabile – a cui sia consentita la piena governabilità. Ma cosa significa essere credibili in Europa oggi? Per essere credibili bisogna che la Merkel si dichiari “impressionata” dalle messa a regime di riforme che hanno peggiorato drasticamente i diritti e le tutele dei lavoratori e che Schaeuble faccia i complimenti all’Italia per aver fatto bene i “compiti a casa”? Stiamo parlando degli stesse figure che hanno ridotto alla fame il popolo greco in nome del dogma assurdo del pareggio di bilancio e del risanamento del debito. Se essere credibili dentro l’Unione Europea oggi significa questo, non dovremmo invece rallegrarci di essere considerati irresponsabili e inaffidabili?
Di fronte a questo carattere di irriducibilità della nostra Costituzione a conformarsi alle politiche dell’Unione Europea, non bisogna tuttavia cadere in una tendenza a sacralizzarla che non regge alla prova dei fatti. Occorre infatti rendersi conto che la “resistenza” della Costituzione ai trattati europei, è stata già in buona parte vanificata e sabotata dall’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione e cioè dell’assunzione a suprema legge dello Stato del principio in nome del quale si giustifica ogni taglio e ogni sacrificio volto a risanare un debito pubblico ormai ineluttabilmente destinato a crescere sotto il peso del pagamento di interessi sempre più alti.
Occorre, invece, come scrivevamo già in un precedente articolo, impostare la battaglia referendaria su un piano tutto politico, quello dell’opposizione al governo Renzi. La bruciante sconfitta del Pd alle ultime amministrative fa ben sperare ma bisognerà tuttavia essere chiari nelle parole d’ordine, e avere la coscienza che non basta mandare a casa Renzi per liberarsi dalla sue politiche. Per farlo occorre invece porre in questione quelle istituzioni che promuovono e impongono quelle politiche di cui Renzi è semplicemente l’esecutore e il luogotenente, e cioè l’Unione monetaria.
Lo sciopero che l’Usb ha proclamato per il 23 settembre prossimo è sicuramente un’occasione da sfruttare, per dare un’impronta di classe al nostro No alla referendum costituzionale e a quella governabilità che è semplicemente la messa a regime della nostra sottomissione ai voleri del capitale.