Rompere la gabbia dell’Unione Europea. Una lettura della BREXIT dal mondo di sotto.

La settimana appena trascorsa ha segnato uno dei più importanti momenti di crisi europea dell’ultimo decennio. Il 51,9% della Gran Bretagna ha votato per il “Leave” dall’Unione Europea, a fronte del 48,1% per il “Remain”. Il referendum era consultivo e non obbliga, giuridicamente, il governo britannico ad utilizzare la clausola di rescissione dalla UE, come legittimamente previsto dal Trattato di Lisbona, ma la spallata è stata sicuramente sentita dai vertici europei e dal governo britannico. Il premier conservatore David Cameron si è immediatamente dimesso, lasciando al suo successore il compito di attuare la rescissione o di scegliere di non tenere conto dell’esito del referendum(e ci sono molti, anche in Italia, che sarebbero concordi ad ignorarlo o a ripeterlo, in barba alla vituperata democrazia europea).

I tempi saranno sicuramente lunghi, ci sono massimo due anni per risolvere tutte le procedure burocratiche di rescissione, in mezzo ci potrebbero anche essere nuove elezioni o quantomeno la battaglia all’interno della compagine conservatrice per la successione di Cameron. Sicuramente questo referendum, anche se forse non verrà realizzato, ha segnato una sconfitta dell’establishment europeo, del grande capitale finanziario, della banche, dei fondi di investimento, delle multinazionali, nonché di tutta l’élite politica che ci governa: popolari e socialdemocratici in primis. Non a caso la notizia è stata ‘accolta’ con un enorme tracollo della Borsa, in particolare quella di Milano, che ha segnato Venerdì 24 Giugno la peggior seduta di sempre, con una flessione del FTSE MIB del 12,48%, maggiore di quella dell’11 Settembre 2001 o del crack Lehman Brothers.

Il voto importante contro l’UE, contro le banche e la classe dirigente, ci dovrebbe indicare in che direzione guardare per tornare finalmente a parlare alle classi subalterne. Per la prima volta si dimostra platealmente il malcontento popolare contro questa Europa, regalando a tutti coloro che sognano di abbattere il governo dell’austerità un precedente: dalla gabbia europea è pensabile uscire.

Nel Giugno 2015 avevamo sperato nel governo di Syriza e di Alexis Tsipras, con una campagna internazionale per l’OXI(il no) ai piani di macelleria sociale che la Troika voleva imporre. L’OXI vinse ma Tsipras capitolò ugualmente, scegliendo la macelleria all’interno dell’UE piuttosto che l’ignota sorte del rimanere soli. Una sindrome, questo attaccamento al disegno europeista nonostante l’utopia sia diventata distopia oppressiva, che affligge la sinistra europea, incapace di costruire una prospettiva diversa.

Certamente il referendum è stato vinto anche dal nazionalismo di destra, dalle campagne anti-immigrazione, dalla voglia di tornare al sovranismo nazionale, ma ci sono dati e osservazioni che non ci possiamo permettere di non far emergere.

L’affluenza è stata alta, 72,2% su un totale di 46,5 milioni di aventi diritto, mentre alle ultime elezioni del 2015 fu molto minore(66,1%). Non tutti i voti sono però da imputare all’elettorato di Nigel Farage e del suo partito nazionalista (UKIP), che un anno fa raccolse ‘solo’ il 12,5% e neppure alla base del partito conservatore con cui proprio Cameron si voleva confrontare, dimostrando di non essere troppo attaccato all’UE. Nonostante la vittoria importante del “Remain” in Scozia (che è funzionale al sogno indipendentista) il “Leave” ha vinto grazie ai nazionalisti e sopratutto ‘sottraendo’ voti agli indecisi labouristi e portando a votare persone che si astenevano da decenni.

Per quanto ne dicano gli editorialisti di Repubblica la questione generazionale c’entra ben poco, i vecchi non hanno rubato il futuro ai giovani. Se ci vogliamo affidare ai sondaggi dobbiamo notare certamente che gli under 34 hanno votato sopratutto per il “Remain”, con quasi il 70%. Ma l’onestà intellettuale ci impone di sottolineare che i giovani sono stati quelli che si sono recati meno di tutti alle urne: 34% di affluenza tra i 18 e i 24 anni.

Quindi il conflitto tra vecchi e giovani che gli europeisti ultra 50enni ci vorrebbero propinare sono baggianate volte a distogliere l’attenzione da dati ben più importanti: a votare per il “Leave” sono state sopratutto le periferie, i quartieri della working class della città industriali, i piccoli centri urbani. Il “Remain” ha vinto solamente nei centri urbani e stravinto a Londra, città del capitale finanziario, megalopoli gentrificata, multietnica, e tendenzialmente più ricca e moderna.

Questi convinti europeisti difendono i valori dell’UE ma non accettano i risultati delle urne della loro democrazia, si parla infatti di brogli, si fanno petizioni per un nuovo referendum, si paventano spettri di nazismo e fascismo.

Questi convinti europeisti non comprendono che hanno creato con le loro mani la loro stessa crisi(come d’altronde sempre è successo nella Storia) promuovendo per anni politiche da lacrime e sangue, imponendole alla fasce più deboli, distruggendo il welfare e tagliando i salari. L’Unione europea è ormai un meccanismo ben consolidato di sfruttamento sovranazionale, trainato dalla Germania e governato dai tecnocrati, banchieri e funzionari della Banca Centrale o della Commissione. Non c’è spazio di democrazia, l’odio riversato verso gli elettori inglesi ne è la triste prova, non c’è margine di riformabilità, la capitolazione greca del 2015 ce lo ha dimostrato. Le periferie dell’Inghilterra e del Galles lo hanno capito prima della sinistra europeista o della socialdemocrazia dei Labouristi, del Pd di Renzi, dei socialisti di Hollande, dei cristiani-democratici di Angela Merkel: dall’Unione Europea bisogna uscire, questione di sopravvivenza.

La campagna elettorale è stata sicuramente egemonizzata dalla paura della crisi e del tracollo finanziario, ma, nonostante l’imponenza delle forze in campo (giornali, politici, multinazionali, imprese, sindacati, televisioni, giocatori di calcio), ha comunque vinto il “Leave”. Un altro sonoro “No” contro questa Europa e contro le classe dirigente, un “No” contro lo status quo, un “No” che non crede nelle riforme e nelle vaghe promesse della sinistra istituzionale, un “No” che denota la stanchezza di continuare a stringere i denti aspettando tempi migliori, un “No” che individualmente è stato un rifiuto alla propria condizione proletaria di vita, un esternazione di disagio e sopratutto di rabbia.

Furbissime sono state le destre fasciste e nazionaliste ad aver intercettato e coltivato per anni il sentimento anti-UE, mentre la socialdemocrazia governava insieme a moderati, conservatori, popolari e cattolici questa Europa e la sinistra diventava sempre più inesistente e distaccata dalla composizione sociale che dovrebbe rappresentare. I salariati inglesi, impiegati, operai e contadini hanno votato contro l’UE mentre la sinistra si limitava a coltivare la sua cerchia intellettuale, limitandosi ad additare razzisti e fascisti senza cercare di comprendere i meccanismi di sfruttamento che ci governano e che gli ‘ignoranti operai inglesi’ hanno evidentemente ben chiari.

Non ci deve esser timore a confrontarsi con chi ha votato contro l’Unione Europea, perché non ha sempre votato contro l’Europa(costruzione, che in quanto internazionalista e anti-razzista, ci piace) ma contro il sistema di potere. La destra ha canalizzato parzialmente voti per l’abbandono, ma essa non parla per le classi subalterne, rappresenta invece quel capitalismo sconfitto dal libero mercato, quella borghesia in crisi, quella piccola impresa che si avvale della manodopera migrante ma non accetta il confronto del mercato globale. Le classi popolari rischiano comunque di accodarsi al fronte anti-unione che è anche il fronte razzista e xenofobo, questo per colpa della suddetta sinistra inesistente, che ancora crede nel progetto di questa UE.

Ovvio che a differenza delle destre non vogliamo innalzare muri, rinchiuderci nel sovranismo nazionale, cacciare lo straniero. Ma noi che siamo per l’abbattimento delle frontiere, per la libertà di movimento delle persone, per l’uguaglianza sostanziale, per la fine dello sfruttamento vediamo qualcuno di questi obbiettivi realizzato nell’Unione Europea? No di certo. Lesbo, Idomeni, Lampedusa, e otto anni di austerity ne sono la triste prova.

Allora ci rimane solo da constatare che c’è molto da strappare ai nazionalisti e molto da conquistare per le classi subalterne. Non abbiamo nulla da festeggiare fintanto che il giusto dibattito sull’uscita dall’UE è egemonizzato dalla visioni autarchiche e razziste. Non abbiamo neanche ricette pronte ma se siamo ancora in grado di immaginare un altro mondo possibile, senza capitalismo, senza padroni, allora, per forza di cose, dobbiamo passare sul cadavere di questa Unione Europea, per quanto sgradevole possa essere e, per quanto rischioso, non c’è altro modo possibile.

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