La situazione palestinese oggi. Tra guerra dell’acqua, diritti negati, e resistenza internazionale

Dopo un paio di mesi dall’ultimo intervento del Tafferuglio sullo scenario medio orientale, proponiamo un articolo che riprende le questioni che in questi mesi hanno interessato di più la popolazione palestinese.

E’ dall’inizio dell’estate, e ancor prima dell’inizio del Ramadan, che torna a presentarsi il problema dell’acqua potabile nei territori palestinesi, che vede come protagonista la Mekorot, società partecipata che gestisce la stragrande maggioranza delle risorse idriche israeliane. Durante l’estate l’azienda ha tagliato gli approvvigionamenti al popolo palestinese al fine di rifornire continuamente e senza mancanze la popolazione israeliana, sia nel “suo” territorio, che negli insediamenti, che ricordiamo, violano il diritto internazionale, essendo costruiti abusivamente su terra palestinese (sancita dall’ONU).

Mekorot nel 2013 veniva sganciata dalla olandese Vitens, proprio per i troppi soprusi compiuti sulla popolazione palestinese, trovando poi il suo partner europeo nella romana ACEA, sottoscrivendo un memorandum sulla gestione delle risorse idriche addirittura alla presenza dei due rispettivi primi ministri (Enrico Letta e Benjam Netanyahu). La Palestina si trova poi ad affrontare questo problema, come quasi tutti gli altri, sempre divisa in due parti: la Cisgiordania e Gaza strip.

In Cisgiordania (West Bank) la popolazione non ha alternative e si trova costretta a comprare acqua potabile imbottigliata, lusso che non tutti possono permettersi. Il popolo palestinese ha però da anni trovato la maniera di adattarsi a questo sopruso (fatto che ad ogni modo non ne alleggerisce per niente il peso), avendo messo a punto un sistema di accumulazione dell’acqua molto organizzato ed efficiente. Una buona fornitura d’acqua viene garantita dall’ONU, soprattutto nei campi profughi. A tale proposito è importante evidenziare il fatto che l’ONU in questo episodio altro non è che una forza complice, dato che non riesce a comportarsi con Israele come dovrebbe comportarsi con qualunque altro stato che violi i diritti umani, funzionando quindi da tampone e calmiere, piuttosto che da soluzione.

Nella striscia di Gaza il 97 % dell’acqua non è adatta alle funzioni del nostro organismo e si conta che questa percentuale salirà fino a renderla completamente non potabile. L’embargo imposto intorno a Gaza sta impedendo o notevolmente limitando la possibilità di costruire autonomamente dissalatori per l’acqua, che sarebbero un’ottima soluzione per gli abitanti della Striscia. Anche se ad opera di UE ed ONU, per settembre dovrebbe esserne messo in funzione uno pronto a soddisfare le esigenze di una parte della popolazione di Gaza city.

In questo vecchio articolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni contro Israele) si può capire perché il tema dell’acqua sia cosi importante: oltre a trattarsi di un diritto innegabile e fondamentale dell’essere umano, essa è stata ed è tuttora depredata dagli israeliani a danno dei palestinesi, e alimenta, inoltre, l’attività dei coloni provocando un danno non solo in prima battuta, ma anche di ritorno.

Ed è proprio sul movimento BDS che ora ci concentreremo. Questo movimento ha caratteristiche e finalità che riprendono l’operato internazionale ai tempi dell’apartheid in Sudafrica ed è riuscito a far parlare di sé proprio per essere risultato efficace in questi termini. La solidarietà internazionale mostrata dagli aderenti a tale movimento, va dall’influenza sui rispettivi governi, Università ed aziende, in maniera cosi capillare da essere riuscita a provocare l’ira dei dirigenti di Tel Aviv che non hanno perso tempo nel definire tale campagna come antisemita. Questo mentre chi sta segregando un popolo, negando diritti umani fondamentali, è ad oggi proprio il governo israeliano.

Ma, essendo il BDS un movimento “esterno” allo stato di cose nella cosiddetta “terra santa”, come riescono essi a relazionarsi con le dinamiche politiche interne al campo palestinese? In quale misura si può legittimare una sorta di embargo dalla popolazione mondiale ad un paese che sta attraversando una guerra interna? Ci viene ben spiegato qui da Omar Barghouti, attivista e fondatore di varie associazioni e campagne di boicottaggio. è importante evidenziare un tema, trattato in questo interessante articolo: la questione della normalizzazione. 

In terra palestinese essa rappresenta un punto cruciale nella vita delle nuove generazioni, ed è assolutamente un indice di quanto il conflitto e i soprusi subiti stiano venendo metabolizzati (appunto normalizzati) dagli abitanti della West Bank e di Gaza Strip. Bisogna far notare che l’autorità palestinese, in quasi tutte le sue forme, promuove la normalizzazione: lo fa attraverso la scuola, i suoi comunicati, le sue azioni e la sua repressione. Citando il precedente articolo:

“Secondo le linee guida del BDS, ci sono qui due principi fondamentali, perché una relazione tra una parte palestinese (o araba) e una parte israeliana non debba essere considerata una normalizzazione. La parte israeliana deve riconoscere i diritti globali dei Palestinesi secondo le leggi internazionali, e la relazione stessa dovrebbe essere di co-resistenza all’oppressione, non di co-esistenza, sotto l’oppressione.”

Ed ancora:

“Diciamo che una organizzazione negli Stati Uniti stia organizzando una conferenza e abbia ricevuto una sponsorizzazione da parte di Israele o di un’istituzione israeliana che è complice nelle violazioni dei diritti dei Palestinesi. E diciamo che l’organizzazione statunitense è disposta ad stilare un programma che includa relatori palestinesi in modo da fornire lo spazio per una voce palestinese. Una partecipazione in questi termini significherebbe che stiamo normalizzando in modo efficace la sponsorizzazione di Israele, in altre parole, normalizzando le violazioni dei nostri diritti. Questo è un prezzo troppo alto da pagare perché la nostra voce venga ascoltata, ciò tanto più importante considerata la soppressione di queste voci da parte dei media tradizionali. Quindi lavoriamo a stretto contatto con i partner per applicare una pressione per rescindere la sponsorizzazione di Israele, e se fallisce invitiamo al boicottaggio.”

Per continuare sulla scia dei diritti negati ai palestinesi, e di quelli concessi ai sionisti, si vuole parlare di altre due situazioni, anche se di una si accennerà soltanto: pochi giorni fa, l’ex Ministra degli Esteri israeliana Tzipi Livni, è stata convocata a Scotland Yard mentre era in visita per motivi privati nel Regno Unito, questo perché il diritto inglese garantisce al cittadino qualunque possibilità di poter denunciare crimini di guerra internazionali. Non è infatti la prima volta che i governanti israeliani rischiano mettendo piede in Inghilterra, ma, anche stavolta, per qualche cavillo, non ci sono stati provvedimenti utili.

L’altra questione ci sovviene per ‘colpa‘ di questo articolo: che non è tanto opinabile sulla questione sollevata, quanto sul merito, nel dire che: “Le associazioni per i diritti delle donne si battono contro le violenze domestiche, ma quando una donna viene uccisa o arrestata dai soldati israeliani si guardano bene dall’indagare.”

Che l’Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi non lavori sul territorio e non rivendichi una libertà dall’oppressione come donne, come compagne e come palestinesi, è semplicemente falso. Oltre a promuovere progetti politici e sociali, l’UPWC (Union of Palestinian Women Committees) si impegna nella creazione di cooperative per il lavoro delle donne, e quindi per la loro autodeterminazione e emancipazione. 

Non dobbiamo dimenticarci che politicamente l’UPWC fa riferimento al FPLP (Fronte Popolare di Liberazione della Palestina), messo tra le fila delle organizzazioni terroristiche da Canada, UE e USA. Sono quindi donne comuniste e rivoluzionarie che seppur con tutte le contraddizioni che questo può comportare nei paesi arabi, portano avanti la loro battaglia dando forma ad una solidarietà attiva e sociale, non solo di genere, che sta riuscendo a farsi spazio tra gli abitanti della West Bank e di Gaza. Di seguito il link di una dichiarazione rilasciata dall’Unione dei Comitati nell’occasione della giornata internazionale della donna che riesce, meglio di chiunque, a mettere in luce le loro posizioni politiche. Inoltre recentemente, (e lo diciamo con piacere) una delle leader del FPLP, membro del consiglio legislativo palestinese e componente attiva dei comitati delle donne, è tornata in libertà. 

Dopo questo excursus sulla situazione degli ultimi mesi non possiamo fare a meno di parlare dei recenti sviluppi che riguardano il nostro paese e più precisamente una parte politica di esso: il permesso negato dal governo israeliano ai parlamentari Movimento 5 Stelle per entrare a Gaza a fare visita a varie ONG, ricettive di fondi statali italiani, e quindi attive grazie ai nostri contributi.

Qui si può trovare un riassunto dell’accaduto, tralasciando le questioni diplomatiche sulla tempistica della richiesta, che non devono essere parte centrale del problema. L’ingresso alla Striscia di Gaza, attraverso il valico di Erez, era stato vietato già in passato da Israele a partiti come Podemos e Syriza, nuovi partiti della sinistra europea. (Quantomeno tutti e tre, secondo le loro dichiarazioni, all’arrivo al governo riconoscerebbero lo Stato di Palestina).

Interessante a questo punto si fa l’analisi de La Stampa che descrive il tutto come un testacoda e che banalizza la situazione mettendosi di traverso su una questione che non è assolutamente quella descritta a cuor leggero nell’articolo. Quando si parla di israeliani, bisogna prestare attenzione a quello che si intende: attualmente al governo siede l’estrema destra, ed ogni giorno gli assassini del popolo palestinese giustificano il loro status asserendo che si difendono e basta, giustificando qualsiasi risposta con “motivi di sicurezza”, violando costantemente il diritto internazionale e non venendo mai puniti per questo. Ogni giorno si approvano investimenti per la fondazione o la crescita di colonie, che equivale a demolire case palestinesi, bruciare i campi e/o gli alberi di intere famiglie e in generale fare azioni squadristiche volte alla creazione del terrore e alla provocazione, sotto lo sguardo complice dell’esercito israeliano, sempre presente come scorta durante le scorribande dei coloni. Quando si parla di Israele si parla di uno Stato sionista. Si parla di un potere difeso dagli Stati Uniti d’America, e anche dall’Italia e da quella parte di Europa che non lo condanna.

Parlare di Israele come la punta di diamante della democrazia Mediorientale suona vuoto quando ci si rende conto che se da un lato viene garantita la libertà individuale come anche quella sessuale, la possibilità di fumare droghe leggere o di studiare con moltissimi sussidi, questo lo si fa, dall’altra parte, uccidendo giorno dopo giorno, con una ferocia inaudita, un popolo che sta a venti chilometri di distanza e che è condannato alla peggior fine: quella di venire dimenticati.

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