IMT e meritocrazia. Critica ad un sistema universitario che alimenta le diseguaglianze.

Notizia della settimana scorsa: IMT, scuola di alti studi di Lucca, triplica la quota premio di finanziamento pubblico dopo essere risultato primo ateneo italiano per qualità della ricerca. Difatti la classifica stilata dall’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione dell’Università e della ricerca) a fine anno aveva reso noti i risultati con il podio occupato proprio da IMT, e il Sant’Anna e la Normale di Pisa ad occupare i gradini più bassi. Adesso è arrivato lo stanziamento dei fondi premio (1 milione e 300 mila euro).

IMT, scuola nata nel 2005, è un istituto finanziato dallo Stato italiano e da altri contributori istituzionali e privati, specializzato in dottorati di ricerca, e attualmente ospita 138 studenti da tutto il mondo altamente selezionati e sostenuti con borse di studio.

IMT ha da sempre avuto una vocazione elitaria, incentrata sulla formazione di studenti altamente qualificati da destinare poi alla ricerca in campo aziendale, soprattutto in grandi multinazionali. Stesse aziende che contribuiscono proprio al sostentamento della scuola tramite la FLAFR (Fondazione Lucchese per l’Alta Formazione e la Ricerca), che di fatto finanzia e coordina le attività dell’istituto. FLAFR riceve contributi annuali dalle fondazioni bancarie (come la fondazione della Cassa di risparmio di Lucca che ogni anno stanzia almeno 1,5 milioni di euro) da associazioni industriali, aziende (come la Kedrion del senatore PD Marcucci), banche come Unicredit e Banca del Monte. Non riceve invece più finanziamenti dal Comune di Lucca, che dopo anni di lotte studentesche contro i 600mila euro annuali stanziati, ha revocato il generoso contributo. Gli studenti difatti si erano stancati di un Comune inadempiente sul tema del diritto allo studio e delle politiche giovanili che però riusciva a finanziare un istituto di ricerca con vocazione privatistica e per anni hanno lottato contro questo sperpero di risorse, strappando il risultato.

Ma i contributi pubblici non sono terminati. La maggior parte dei fondi IMT gli ottiene infatti direttamente dal governo che stanzia quasi 7 milioni di euro ogni anno tramite il FFO (Fondo di finanziamento ordinario) che sarebbe destinato alle università pubbliche tradizionali, ma sostiene anche gli istituti speciali di alta formazione come IMT appunto. IMT infatti non è un ateneo come tutti gli altri. Dalla sua fondazione, molto voluta dal Senatore lucchese di Forza Italia Marcello Pera, si è contraddistinto per una forte vicinanza con il mondo politico e il pensiero neoliberista che viene riproposto in molti eventi (si pensi alla conferenza del 2014 dedicata a Margaret Thatcher o alla collaborazione con la Fondazione Magna Carta istituita da Mediaset e Gaetano Quagliarello, per anni sostenitore da destra dei governi di larghe intese). IMT è un istituito ibrido, dedito alla ricerca funzionale a meri interessi aziendali che però riceve 9 milioni di euro dallo Stato per soli 138 studenti.

Ciò forse non stonerebbe in un sistema universitario libero, egualitario e adeguatamente sostenuto, ma non è sicuramente il caso italiano. Dal 2010 al 2015 l’università italiana ha subito un taglio del 15% delle risorse e risulta terza in Europa per le tasse universitarie più alte. Dati Ocse dimostrano poi che l’Italia è terzultima tra 35 paesi del mondo per la spesa nell’istruzione, sopra Slovenia e Ungheria, con appena il 5,2% della spesa pubblica destinata all’istruzione. Con l’avvento del governo Renzi la situazione è solo peggiorata, in senso ancora più classista e ineguale. Difatti la ministra Giannini nel 2015 ha disposto tagli al FFO per 45 milioni annuali per un triennio e contemporaneamente un aumento considerevole della quota di FFO premiale da destinare su criteri di merito totalmente arbitrari alle Università considerate più virtuose. Si tratta di un aberrazione la cui assurdità dovrebbe risultare già di per sé evidente. Una quota premiale dovrebbe essere infatti aggiuntiva rispetto alla quota di finanziamento annuale necessaria al normale funzionamento degli atenei, e non in essa compresa. Qui invece prima si levano delle fette alla torta, e poi si dice agli affamati che delle fette rimanenti alcune vanno pure ‘meritate’.

Questa è essenzialmente la visione del governo PD rispetto all’università pubblica: un sistema meritocratico basato su tagli, competizione tra istituti, incentivi e promozioni per pochi. Da questo sistema IMT ne esce ovviamente vincitore, essendo un istituto dedito solamente alla ricerca, con pochi studenti, spazi e strutture garantite da Comune e banche, e finanziamenti continui per progetti esterni da parte di aziende. Le scuole di alta formazione sono esattamente ciò che il comando europeo vuole incentivare, ce lo ha testimoniato anche l’ex Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che nel Settembre 2016 parlava di “accendere la sfida tra università” e puntare investimenti e risorse su “4 o 5 università d’eccellenza” per farle collaborare con le aziende.(Qui si può ascoltare l’inquietante progetto)

Questo progetto è coerentemente legato alla Buona scuola renziana, che ha imposto una visione largamente diffusa tra l’élite economica mondiale: quella del neoliberismo (e guarda caso IMT se ne fa portavoce con lo sdoganamento del pensiero thatcheriano). Valutazione continua, standard produttivi, incentivi, promozioni, competizione, verticismo e autoritarismo. Queste sono tutte caratteristiche trasportate dal mondo aziendale a quello universitario sotto la denominazione di “meritocrazia”.

Continuamente sentiamo questa parola provenire dai discorsi dei politici, dei professori e con molta forza dai diktat europei, che impongono incentivi non sulla base di un reale bisogno ma sulla base di un merito definito arbitrariamente. Per i pensatori neoliberisti in una società economica basata sulla scarsità di risorse, il lavoro, il reddito, l’assistenza sociale, l’istruzione devono essere concessi su basi di merito. Ma chi decide cos’è il merito? Quante volte in un contesto lavorativo il merito viene confuso con l’inclinazione all’obbedienza, se non alla sottomissione? Quante volte il merito è un concetto totalmente arbitrario anche tra i banchi scolastici, dove spesso non viene premiata la capacità di analisi di un problema o di porre una critica compiuta ma più che altro si punta a risultati standardizzati e alla capacità di adottare un metodo di studio efficiente a questo scopo? E, soprattutto, il merito può tenere conto delle differenze di provenienza familiare e condizioni materiali che sono insite nella struttura della società? Assolutamente no. Per questo il merito avvantaggia chi è già avvantaggiato, promuove le diseguaglianze e blocca la mobilità sociale.

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Meritocrazia non fa rima con democrazia ma assai di più con aristocrazia, letteralmente il governo dei migliori, degli ottimi, dei più meritevoli. La distribuzione delle risorse, delle cariche pubbliche, e del welfare sulla base del merito è propriamente un sistema basato su un governo oligarchico, un governo di pochi, che può decidere criteri di valutazione e canoni verticistici di comando piramidale, dove chi ha il potere legislativo può determinare l’ascensione sociale di chi sta sotto. Un sistema meritocratico riconosce le diseguaglianze e ne legittima la perpetuazione, non fornendo stimoli e aiuti a chi ha difficoltà oggettive ma dando incentivi a chi nasce in condizioni già benestanti. Allo stesso modo, se applicato al mondo universitario, un sistema meritocratico aiuta le università o gli istituti individuati come più produttivi come IMT, che hanno già risorse per fare ricerca (o quantomeno una ricerca funzionale al mondo aziendale) e che hanno pochi studenti.

Inserendo criteri di competizione, la Buona scuola non crea un circolo virtuoso, ma una gara continua che danneggia i diritti degli studenti, costretti a spostarsi alla ricerca dell’università migliore (e più ‘spendibile’ nel mercato del lavoro), quando invece ognuno dovrebbe aver diritto all’istruzione garantita e accessibile. Questa competizione ovviamente non si ferma al territorio italiano ma è su scala europea e mondiale, grazie anche ai giornali che continuano a lanciare in prima pagina improbabili classifiche dei migliori atenei, da cui ovviamente ne escono costantemente vincitori i grandi atenei americani delle Ivy League come Harvard, dove le tasse possono arrivare anche a 60mila dollari l’anno (il doppio dello stipendio medio di un operaio del midwest). Questi istituti sono l’apoteosi inquietante di un sistema meritocratico, che vale per pochi ed è totalmente funzionale alla riproduzione tecnica e intellettuale della classe dominante, mentre le classi subalterne si debbono accontentare di università pubbliche che non danno referenze sul mercato del lavoro.

L’istruzione italiana, ormai è un dato di fatto, è stata subordinata a criteri di utilità e di produttività, come qualsiasi merce prodotta dai privati secondo regole di mercato. Le famiglie oggi scelgono come investire il loro capitale (umano ed economico) e, con la speranza di un futuro più benestante (quindi con la produzione di un profitto), selezionano l’università considerata migliore. Una logica totalmente economica che vede l’istruzione come mero strumento di ascesa sociale, di carriera e produzione di un futuro profitto. Una logica imposta dalla gestione neoliberista dei saperi che non si pone il problema dell’allevamento di saperi critici, dell’Università come luogo crescita personale e collettiva.

Ma questo inganno imposto da pensiero commerciale (“pago-pretendo”) nell’approccio all’istruzione, è già stato svelato: il merito non garantisce benessere e lavoro neanche agli operai cognitivi più formati e qualificati (medicina, ingegneria, giurisprudenza non sono più rifugi sicuri di chi vuole assicurarsi un futuro). Per decenni il merito è stato rivendicato anche da molti studenti circondati da una sistema pubblico corrotto e da una condizione di vita caratterizzata da disoccupazione cronica, precariato e insoddisfazione personale. Il divide et impera delle classi dominanti ha imposto la competizione agli studenti delle classi subalterne, una competizione selvaggia per accaparrarsi poche briciole. Ma in realtà il merito è basato su criteri arbitrari, a cui è stata data una parvenza di razionalità scientifica, di leggi universali pur rimanendo semplici criteri scelti dai governanti, che rispondono a interessi di classe. Questo merito viene imposto con la forza per la legittimazione della diseguaglianza nella nostra società, basandosi su una giustificazione pseudo-razionale. Il sistema scolastico-universitario svolge così un sistema a tre vie: riproduzione della forza lavoro più o meno specializzata, giustificazione ideologica della diseguaglianza e dell’ordine sociale, addestramento alla competizione orizzontale invece che al conflitto verticale.

Per la tecnocrazia neoliberista il sistema educativo è una palestra di vita che prepara allo sfruttamento con strumenti tecnici e ideologici, fomentando una competizione individuale e individualista. Nonostante quanto narratoci dagli organi di stampa del capitalismo (il Corriere della Sera dedica al tema un’ intera parte del suo sito) con le strazianti storie di “quelli che ce l’hanno fatta”, la competizione basata su un presunto merito è profondamente ingiusta, perché non ci dobbiamo dimenticare che in ogni competizione c’è uno solo che vince e tanti che perdono, e se questo è sicuramente lontano da un’idea comunista della società e anche totalmente inconciliabile con l’ideale democratico e repubblicano tanto caro ai maître à penser della borghesia italiana.

Andrea Rinaldi

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