Michele, mio simile
Per l’allegria
il pianeta nostro
è poco attrezzato.
Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni futuri.
(V. Majakovskij – In morte di Esenin)
La lettera lasciataci da Michele prima di suicidarsi ha fatto irrompere nel dibattito pubblico la punta estrema di una condizione più generale, che riguarda quella che è stata definita la “generazione perduta”.
In questi giorni sono state scritte molte cose su quella lettera e su quel gesto. Si può ritenere che di fronte a un suicidio e al dolore che questo lascia in chi sopravvive, l’atteggiamento più dignitoso a cui attenersi sia quello del silenzio. Capiamo e rispettiamo questa posizione, ma non è la nostra.
I genitori potevano benissimo decidere di non pubblicare la lettera di Michele e di mantenere privato quel lutto. Se hanno deciso di pubblicarla, devono aver pensato che il contenuto di quella lettera dovesse emergere, con tutto il suo carico di denuncia, assumendosi il rischio di immettere nella realtà un oggetto che poi non sarebbe più stato sotto il loro controllo.
Prima di prendere la parola anche noi, sulla lettera e sul dibattito che ne è seguito, una precisazione doverosa. Quello che abbiamo a disposizione sono una lettera e un gesto finale. Così come non è possibile risalire alla psicologia degli autori di testi letterari tramite i testi stessi, dobbiamo per forza di cose usare almeno qualche cautela rispetto alla tentazione di identificare il contenuto della lettera come una descrizione esatta e veritiera della condizione di Michele e delle ragioni che l’hanno portato a compiere quel gesto. Possono esserci degli elementi che non conosciamo, o di cui non conosciamo il peso reale rispetto al suo suicidio, che stanno fuori da quella lettera.
Dal momento che, come abbiamo detto sopra, non possiamo basarci solo su quella lettera per formulare un’interpretazione completa ed esatta del perché Michele si è suicidato, dobbiamo dunque rinunciare a dare un’interpretazione parziale (“che coglie una parte/che è di parte”) su questa morte? No, non è questo che dobbiamo fare. Spesso non sappiamo abbastanza o addirittura un bel niente delle persone che ci stanno vicine (amici, genitori, partner ecc.) e nemmeno di noi stessi. E tuttavia, non possiamo tirarci indietro rispetto al tentativo di comprendere, nominare e mettere in comune una condizione come quella di cui è morto Michele, che è in parte anche la nostra. Perché con tutte le cautele del caso quella maledetta lettera rimane, con tutto il suo ingombrante e incandescente contenuto. Un contenuto la cui valenza, malgrado le apparenze, è socio-politica, e solo in second’ordine psico-patologica.
Thomas Mann ha scritto: “La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive”. La morte di Michele ci riguarda, come ci riguarda il mondo da cui Michele si è liberato, il mondo in cui noi rimaniamo a (soprav)vivere. “Siete voi che fate i conti con me, non io con voi.”
I dibattiti che si sono succeduti nei giorni successivi sono oscillati tra l’accusa di strumentalizzazione da una parte e il tentativo di screditare la portata di denuncia delle sue parole di congedo dall’altra, derubricando il tutto a un comune caso di depressione con tratti infantili. I commenti di quest’ultimo tipo ci sembrano quanto mai superficiali e banali. La (presunta) “mancanza di lucidità” delle parole di Michele, l’indebita commistione del piano esistenziale individuale con quello sociale e politico (come se il secondo non avesse importanti ricadute sul primo) che ne trasparirebbe, esonera forse dal fare i conti con i sintomi di una condizione drammaticamente reale? Non stiamo parlando di un trattato di sociologia del precariato, stiamo parlando di una lettera di suicidio, cioè di quella condizione di sofferenza così radicale e disperata che ti porta a voler porre fine alla vita.
Quello che ci deve interessare e interrogare della lettera di Michele è appunto come una persona come noi può reagire a un’esistenza di precariato, da intendersi non semplicemente come discontinuità e incertezza degli impieghi con l’insicurezza economica che ne deriva, ma come una condizione che ha ricadute pervasive sulle relazioni, sulle aspettative verso il futuro, sulla mancanza di riconoscimento, sulla crisi della propria identità. Con le sue parole: “È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.” Il tradimento di cui ci parla questa lettera, lo scollamento tra la realtà e l’individuo con le sue aspirazioni (“Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine.”) è quello che Alessandro Gilioli ha definito “vincismo”: l’ideologia del mercato, della competizione, della prestazione e dell’eccellenza come processo di soggettivazione.
In questa condizione, presa in mezzo tra accettazione alienante e rifiuto nichilista e autodistruttivo, dove ancora fatica a manifestarsi la via d’uscita (la lotta collettiva contro il capitale e contro la propria condizione di sfruttamento), come ci ricorda Michele, “i limiti di sopportazione sono soggettivi, non oggettivi”. Ma soggettivi non vuol dire idiosincratici, è questo il punto. Ricondurre il gesto di Michele e le ragioni del suo malessere psicologico a un disagio puramente personale, a cui l’esperienza del precariato (nel senso esteso che abbiamo detto sopra) farebbero solo da pretesto e da detonatore, significa ucciderlo una seconda volta, oltre a perdere l’ennesima occasione per riflettere sulla condizione in cui versa il mondo giovanile, e non solo giovanile, ormai stritolato dall’assenza di garanzie e dal deserto di orizzonti.
Come era prevedibile, per depotenziare l’urto che la lettera di Michele ci consegna, si è subito messa all’opera l’orda dei saccenti. “Ma come puoi pensare che ti sia tutto dovuto? “Ma come puoi pensare di avere già tutto pronto e a disposizione, di avere il massimo?” “La vita è impegno, delusione, fatica”. La cantilena paternalista in salsa liberale sarebbe già di per sé stucchevole, ma in questo caso è oscena.
Coloro che ci dicono e ci ripetono allo sfinimento che questo è l’unico mondo possibile, che è anzi l’unico mai esistito, sono colpevoli della morte di Michele, perché operano una rimozione della storia, occultano le genealogie del presente e i suoi responsabili, ci costringono a scegliere se accettare in blocco il mondo che loro hanno costruito per il nostro sfruttamento, facendo violenza ai nostri sogni e ai nostri desideri, o se appunto togliersi di torno.
Chi ci rimprovera, dicendo che pretendere una società che dà garanzie e tutele per tutti e tutte è una roba vecchia, pre-moderna, da perdenti, da bimbi viziati, da choosy, è colpevole della morte di Michele, perché fa parte o è prono all’ideologia di quel 3 % di presunte “eccellenze” (che per rimanere tali non possono aumentare di percentuale, del resto) che vorrebbe dettare i propri valori al restante 97 % e tira fuori il disprezzo di fronte a chi non si lascia abbindolare dall’inganno.
Chi canzona la presunta immaturità di Michele, il suo non essere stato capace di adattarsi a come va il mondo, il suo essere rimasto adolescente (“la felicità, addirittura?!”) è colpevole della sua morte, perché mistifica il fatto che la maturità psicologica, intesa come rito di passaggio e come capacità di adattamento dell’individuo alla realtà sociale di cui deve entrare a far parte (al netto del fatto che questa realtà è per noi tutta da ribaltare e distruggere), deve poggiare su condizioni materiali, condizioni che una volta erano il lavoro a tempo indeterminato, la possibilità di costruirsi una famiglia, di abbandonare casa dei genitori, di costruirsi un’autonomia individuale. Tutte cose che la condizione precaria oggi non consente più. Ci impediscono di diventare grandi e poi derubricano a capricci le nostre sofferenze e il nostro spaesamento. Infami.
La lettera di Michele ha colpito profondamente la nostra generazione non solo perché descrive un pezzo della nostra condizione, ma perché dà voce a quelli scenari vertiginosi e apocalittici legati al ripresentarsi (più prossimo di quanto pensiamo, forse) di un contesto di guerra. Scenari che vivono nascosti nel nostro immaginario, che abbiamo paura di nominare o a cui ci siamo rassegnati, convinti di non poter far niente per impedirli, tirando a campare, “resistendo finché possiamo”, per poi farla finita anche noi quando non potremo più scansarle: “le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.”
Come facciamo dunque i conti, come generazione precaria e derubata di un futuro promesso che non esiste e non esisterà mai, con il gesto di Michele, con la china autodistruttiva dentro cui anche molti di noi sono forse incamminati? Come facciamo a conquistare la possibilità di un’altra via d’uscita dall’inferno?
Prima di tutto partendo dalla necessità di un Noi, un Noi da nominare, da riscoprire, da vivere. Michele non è riuscito ad arrivarci, e forse non ce l’ha fatta a resistere oltre anche per questo. Fastidioso, deleterio, inutilmente moraleggiante dire che la colpa è sua. Come se oggi dire Noi – sentirlo, crederci, viverlo davvero – fosse facile, e non fosse invece un passaggio ostacolato in ogni forma dai nostri nemici e dalla loro pedagogia della competizione e dell’affermazione individuale. Ma da questo baratro non si sfugge. Riprendendo le parole dell’editoriale di Infoaut:
“Se non vogliamo arrenderci a questa situazione, se vogliamo che le strade possibili per affermarsi siano diverse, la nostra generazione deve prima di tutto riconoscere di avere un problema collettivo e come tale affrontarlo. Nel riconoscere un problema comune, nel ragionare insieme su come risolverlo, nel cospirare per ribellarsi sta la possibilità di superare la solitudine, di (ri-)trovare un tessuto relazionale solido e un senso alla propria vita.”
Perché si può anche pensare che non esiste oggi, in Italia e nel mondo, una solida prospettiva politica antisistemica capace di sostituirsi alla sofferenza in aumento del presente e all’assenza di futuro.
Si può pensare che non esiste oggi né un soggetto sociale definito che avrebbe un interesse al cambiamento radicale dello stato di cose presente, né un soggetto politico capace di organizzarlo e di mobilitarlo a livello di massa.
Si può pensare che gli scenari sono cupi e la realtà è molto molto lontana dal punto in cui dovrebbe essere oggi per concederci almeno un po’ di ottimismo.
Si può pensare tutto questo. E si può anche (in parte) avere ragione.
Ma pensare questo, e fermarsi a questo, non ci salva. Fermarsi a questo, significa abdicare alla possibilità di costruire insieme quella realtà che manca, distruggendo quella che c’è; significa rassegnarsi ad abitare l’inferno, e a darsi il suicidio come unica opzione a disposizione per uscirne; significa rinunciare ad essere quel popolo che manca, e che solo nella lotta contro i suoi nemici può riconoscersi, aggregarsi, costituirsi, scoprirsi felice in un’esperienza comune.
In genere, quando ci si sente impotenti, sconfitti e sopraffatti dal mondo, si ha la tentazione fortissima di ritirarsi in un cantuccio protettivo e isolante. Ognuno conosce il proprio. La felicità adattiva fondata sul ripiegamento su se stessi è la “soluzione” individuale che da sempre ogni forma di dominio (e il capitale non fa eccezione) cerca di lasciare ai subalterni per tenerli buoni. “Un capitale sempre meno in grado di mantenere le promesse, deve educare i suoi attori a pretendere sempre di meno. La crisi è infatti usata dal nostro nemico per produrre la soggettività subalterna dell’<<uomo in crisi>>.” ha scritto Gigi Roggero nel suo ultimo libro. Tuttavia solo a prezzo di un cosciente istupidimento, di conflitti interiori dolorosamente irrisolti, e di una mutilazione della nostra umanità, è possibile pensare che questa, anche se frutto di adattamento, sia tutto sommato una bella vita.
La lettera di Michele ci scuote perché mette in crisi l’illusione di poterla sfangare nonostante tutto, di stare abbastanza bene quando in realtà si fa una vita di merda, di non essere in crisi quando in realtà lo siamo. E ci fa vedere un fuori che forse per molti (fuori di retoriche consolatorie sulla lotta come alternativa) è ad oggi l’unico a disposizione, ma a cui è spaventoso e inquietante rassegnarsi. La lettera e il gesto tragico di Michele devono essere per noi – noi in quanto generazione precaria – uno shock capace di spingersi a fare i conti con il fatto che se l’unica via d’uscita è questa, dobbiamo trovarne un’altra, e dobbiamo trovarla insieme. Perché è solo quando ci accorgiamo che non esiste la possibilità di porci al di fuori da soli, quando ci accorgiamo che siamo tutti dentro, e che in questa gabbia stiamo male, che può nascere la voglia di mettersi insieme per far saltare le sbarre, di ricercare gli strumenti, i tempi e i modi efficaci per farlo, l’odio per le guardie e il desiderio di un’altra, reale libertà.
La possibilità di saltare il baratro e di raggiungere una terra più abitabile dove poter essere in maggior armonia con noi stessi e con le nostre aspirazioni, dipende da questo. L’alternativa l’abbiamo vista, è essere spinti centimetro dopo centimetro verso il burrone.
Ripartiamo dunque dal bisogno di un Noi, dalla capacità di chiamare col giusto nome – Capitalismo – almeno una parte della nostra infelicità, dall’individuare dei responsabili per la nostra condizione, per non restare prigionieri del nichilismo e dell’insensatezza. Michele, pur nella sua disperazione impotente, l’ha fatto, ha cominciato a dare un nome al nemico: il ministro Poletti, quello che alla generazione privata di un futuro qui e costretta ad andare all’estero, rispondeva con il disprezzo che si riserva alla spazzatura, agli scarti della società.
C’è qualcosa che allora dobbiamo fare, qualcosa di non semplice. Dobbiamo riscattare il sentimento dell’odio dagli anatemi a cui il pensiero democratico-liberale lo relega, depotenziando i conflitti, invitando al rispetto sempre e comunque di quella pace sociale che coincide con la nostra oppressione e in definitiva con la nostra morte. Dobbiamo dire e riconoscere che l’odio può essere un sentimento nobile e nobilitante, un motore della rabbia e della lotta alle ingiustizie se si dirige verso chi è responsabile delle sofferenze della grande maggioranza di noi, misero se invece si sfoga in basso rafforzando la nostra condizione di impotenza e sottomissione. Capire che se a un certo punto la nostra pazienza, la nostra capacità di sopportare e di resistere termina, invece di farla finita con noi stessi può essere giusto convertire la rabbia e la frustrazione in odio da condividere collettivamente, alleggerendone il peso. Perché cospirare significa respirare insieme.
Se a qualcuno di noi fosse capitato di leggere la lettera di Michele prima che questi si suicidasse, che cosa saremmo stati capaci di dirgli di fraterno e di realmente solidale per convincerlo a desistere, a dare una possibilità a quell’altra vita che vorremmo costruire distruggendo l’esistente e la sua infelicità? Certo non le solite frasi di circostanza, i soliti luoghi comuni: “Non farlo, hai ancora tutta la vita davanti”; “Aspetta ancora un po’, ci ripenserai”, “Pensa alle persone che ti vogliono bene”. E nemmeno la falsa vicinanza di una pacca sulla spalla deresponsabilizzante: “Fai bene, ti rispetto per il coraggio di questa decisione. Molti non ce l’hanno”. Forse l’unica cosa che avremmo potuto dirgli, e che possiamo dire e proporre a chi ci sta accanto e soffre insieme a noi, non è il logoro invito a resistere, a far durare la propria condizione di sopravvivenza. Dev’essere la condivisione di un bisogno e di una disponibilità a distruggere insieme quel mondo che ci condanna alla miseria e all’infelicità. E a dare a questo mondo dei volti e dei luoghi riconoscibili e attaccabili. Questa è l’unica alternativa alla distruzione di noi stessi.
“Di altro odio non c’è davvero bisogno.” Dobbiamo riuscire a dimostrare che su questo Michele forse si sbagliava. Che nella capacità di odiare, e di odiare bene, sta invece un’altra possibilità, un’altra via d’uscita che dobbiamo essere capaci di offrire a tutti quelli e quelle come lui, e scoprire in questo sentimento la possibilità di ritrovarsi comunità, di appartenere a una stessa parte, e di trasformare questo odio nella gioia e nella felicità che si prova nel combattere e nel distruggere il nostro comune nemico.
Ciao Michele, mio simile. Ti vendicheremo.
Sasso Nello Stagno