Se ti infortuni lavorando alla Wepa, la colpa è tua? Un esempio di come le aziende risparmiano sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

A circa due mesi dalla morte di due operai avvenuta nel cuore della città vetrina, parliamo di nuovo della sicurezza che davvero ci interessa: quella sul luogo di lavoro. Ci spostiamo alla fabbrica WEPA di Salanetti situata nel capannorese, una delle tante del settore cartario nella piana di Lucca.

 

Lo stabilimento in questione infatti si fa vanto di aver ridotto gli infortuni aumentando la produttività, come dovrebbe testimoniare il premio ricevuto dal progetto Obiettivo Zero il maggio scorso. Scavando un po’ più a fondo si scopre che la fabbrica si è solo riorganizzata per mascherare al meglio gli incidenti (che ancora avvengono, come ad esempio l’infortunio dell’anno scorso di un meccanico che ha subito una ferita a un braccio lavorando ad un macchinario), e per addossare la colpa ai lavoratori stessi, in un contesto di sfruttamento intensivo. E’ infatti con il sistematico scaricamento di colpe dal punto di vista legale sullo stesso infortunato, e potenzialmente anche sui suoi compagni, che una fabbrica che conta più o meno lo stesso numero di incidenti delle altre, risulta invece pressoché a infortuni zero.

 

Spieghiamo nello specifico come ciò viene reso possibile. Ogni lavoratore è tenuto a frequentare dei corsi in cui si insegnano tutti gli accorgimenti e le procedure standardizzate che dovrebbero essere seguite per evitare infortuni e, inoltre, vengono forniti dispositivi di protezione individuale che l’operaio deve notificare di aver indossato con dichiarazione firmata ogni giorno. Qualora l’operaio si faccia male, la colpa non viene in pratica mai addossata al datore di lavoro ma a lui stesso, dietro il presupposto che avendo seguito corsi specializzati e indossando apposite protezioni non si sarebbe potuto far male se non per sua stessa negligenza. Addirittura nemmeno un semplice strappo muscolare viene considerato infortunio, dato che all’operaio viene fatto seguire un corso anche su come movimentare correttamente carichi senza sforzarsi!

 

L’operaio vittima di un incidente risulta in questo modo “cornuto e mazziato”: un infortunio infatti può anche mettere a repentaglio il posto di lavoro e, nel caso dei lavoratori interinali, si è costretti a proprie spese a provvedere alle cure, sperando di evitare il licenziamento. Che un corso di formazione e la fornitura di determinati dispositivi di protezione ai lavoratori da parte dell’azienda basti a scaricare su di loro le colpe di un eventuale infortunio può apparire surreale, ma a quanto pare è permesso dalla legge e persino per i sindacati confederali presenti in azienda, che non si sono espressi sulle nuove misure varate a dire il vero già da prima che il gruppo Wepa acquistasse l’azienda. Dal canto suo la fabbrica ha un doppio guadagno: se da un lato riesce a evitare il dover risarcire l’operaio, dall’altro riesce a truccare le statistiche e a vendere alle ditte clienti l’immagine di una WEPA attenta alla salute dei propri lavoratori e dedita a seguire norme sempre più all’avanguardia, norme che spesso vengono richieste proprio dai committenti.

 

Siamo davanti a un contesto del tutto in linea con quella che è la condizione generale del mondo del lavoro oggi in Italia: quella della negazione dei diritti dei lavoratori, sottoposti a lavori usuranti e a rischio infortuni e a ritmi di produttività sempre più intensivi. Se da una parte si è lesinato sulle misure di sicurezza in modo da rimanere competitivi in un mercato che gioca sempre più al ribasso, dall’altro invece non si bada a escogitare trucchi per far ricadere la colpa di un infortunio sul lavoratore stesso, ritorcendo contro di lui quella formazione che invece dovrebbe tutelarlo. Come se i livelli di attenzione fossero qualcosa di indipendente da fattori come l’età, la stanchezza psicofisica, l’intensità e la durata dei turni di lavoro ecc.

 

Che la faccenda puzzi di imbroglio ai danni dei lavoratori, lo si può capire anche dalle opinioni degli operai, che reputano molte delle procedure a cui sono obbligati delle perdite di tempo. Si può ben comprendere perché siano restii a firmare dei documenti da cui si sentono caricati di ulteriori rischi e responsabilità senza un ritorno effettivo. Gli stessi capoturno sembrano contraddirsi, invitando prima gli operai a seguire le laboriose procedure di sicurezza per poi bacchettarli quando la produzione non è ai massimi regimi.

 

 

Ancora una volta è di sfruttamento che stiamo parlando, di regimi lavorativi sempre più serrati, di ricatto sia sulla paga che sul posto di lavoro stesso, e di un ambiente che fa di tutto per frammentare e demoralizzare la massa operaia, sempre più inerme alle decisioni dei piani alti. Questo modello ha peraltro recentemente toccato il suo apice con la decisione di adottare per 15 linee un sistema di produzione che è già stato introdotto in varie fabbriche in tutto il mondo: il 5S.

 

Il 5S è una metodologia sviluppata dalla Toyota in Giappone e si basa su cinque principi: Seiri (separare), Seiton (riordinare), Seiso (pulire), Seiketsu (standardizzare), Shitsuke (diffondere). Il suo scopo dovrebbe essere quello di migliorare l’efficienza della produzione aumentandone i ritmi e diminuendone gli sprechi, responsabilizzando l’operaio. Se si è capito il contesto in cui ci troviamo, non possiamo che individuare questo modello come il punto di arrivo del percorso che l’azienda ha incominciato quando ancora si chiamava Perla nei primi anni del duemila. Aumentare l’efficienza si traduce infatti nell’aggiungere mansioni ad un lavoratore già pressato da ritmi di produzione che si annunciano sempre più serrati; responsabilizzarlo vuol dire deresponsabilizzare sempre più l’azienda nei confronti della sicurezza dei suoi dipendenti, che vengono esposti a rischi per i quali non ricevono alcun beneficio.

 

Ovviamente per ottenere i propri obiettivi, nel nome del modello 5S la fabbrica ha pensato bene di aggiungere un altro foglio da firmare, foglio su cui le diffidenze e le paure degli operai si sono concentrate. Nella dichiarazione in questione, l’operaio deve dichiarare di essersi accertato che tutte le misure di sicurezza siano state rispettate e che tutte le parti dei macchinari funzionino correttamente, operazione che se fosse condotta scrupolosamente porterebbe via moltissimo tempo e che, inoltre, richiederebbe competenze che un lavoratore generalmente nemmeno ha. C’è da dire che a firmare questa dichiarazione non è solo l’operaio ma anche il suo capoturno, il responsabile della produzione e il direttore dello stabilimento. Tuttavia, in un contesto gerarchizzato come quello della fabbrica, si può facilmente intuire chi in caso di un grave incidente, farebbe la fine del pollo, e chi invece riuscirebbe a uscirne pressoché indenne.

 

Il fatto che alcuni lavoratori si siano dimostrati diffidenti nei confronti di questo documento e che abbiano deciso di non firmare rappresenta uno spiraglio di possibile conflittualità: vedremo a questo punto quali saranno gli sviluppi della vicenda, e se i lavoratori avranno la capacità di mettere i sindacati confederali davanti alle loro responsabilità. Ci poniamo quindi l’obiettivo di seguire e di indagare più a fondo su ciò che succede nella WEPA di Salanetti e portarlo all’attenzione dei nostri lettori.

 

A rischio di ripeterci, pensiamo che situazioni come questa confermino per l’ennesima volta il prezzo che il mondo del lavoro nel nostro paese ha dovuto pagare per riforme come il Jobs Act, l’alternanza scuola lavoro, l’eliminazione dei diritti e la precarizzazione della manodopera, riforme ugualmente varate e sostenute da governi di centro-destra e centro-sinistra, sempre a vantaggio dei profitti dei padroni. Solo a partire dall’esigenza di tornare a difendersi collettivamente con l’arma della solidarietà di classe, e spazzando via tutte le divisioni (fra lavoratori garantiti e meno garantiti, fra dipendenti diretti e in appalto, fra operai italiani e stranieri, ecc.) da cui dipende la forza del padrone che ci ricatta e ci sfrutta, è possibile pensare di bloccare una tendenza all’impoverimento e alla perdita di diritti altrimenti inarrestabile. Ora più che mai serve riorganizzarsi dietro poche e semplici parole d’ordine, che possano coinvolgere non solo chi un lavoro ce lo ha già, ma anche gli studenti, i disoccupati, e tutti coloro che pagano il costo della crisi: casa, reddito, salari dignitosi e sicurezza sul lavoro per tutti e tutte!

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