Potere al Popolo. Non resuscitiamo il cadavere della sinistra

Come contributo al dibattito attorno al progetto di Potere al Popolo, dopo l’editoriale uscito ieri che ne sottolineava le potenzialità, ne pubblichiamo uno che invece si sofferma sulle criticità e gli aspetti problematici di questa proposta.

Potere al Popolo. Non resuscitiamo il cadavere della sinistra

di Andrea Rinaldi

Questo editoriale è stato scritto pensando alla proposta organizzativa ed elettorale del centro sociale Ex Opg Occupato – Je so’ Pazzo. Non è, e non vuole essere, una lezione, ma un serio invito a dibattere, ripensando le forme di organizzazione e di lotta in un contesto diverso e avverso.
La proposta delle compagne e dei compagni di Potere al Popolo, che in questo periodo si è concretizzata, è una scelta legittima che richiede anche una risposta franca. Al silenzio di alcuni settori del movimento italiano (che talvolta nascondono una scelta di campo a favore dei fuoriusciti dal Partito Democratico) preferiamo un’analisi ragionata e seria per una discussione che si pone ben oltre la scadenza elettorale.

Dieci anni di crisi permanente hanno spazzato via la (poca) fiducia nelle istituzioni governative più di quanto non sia riuscito il ventennio berlusconiano. In particolare questa decade ha palesato l’inutilità e l’inconsistenza ideologica della cosiddetta sinistra, che si è presentata nel suo miglior vestito, dopo gli anni dei girotondi, per poi rendere evidente la trasformazione che incubava da anni: dalla socialdemocrazia al neoliberismo, da una supposta politica per le masse a una dichiarata politica per i ricchi. Quando il gioco si è fatto duro PD e cortigiani hanno svenduto il paese e messo sul lastrico milioni di famiglie a suon di “ce lo chiede l’Europa”. Conseguenza di questo tradimento annunciato è stata l’emorragia di voti che non sono andati solo verso altre forze politiche ma hanno soprattutto alimentato l’astensione e fomentato l’autismo politico, ovvero il rifiuto ad affrontare la realtà politica rinchiudendosi nel proprio contesto individuale. Di per sé l’astensione, che a livelli comunali ha talvolta superato la percentuale dei votanti, non è un dato negativo né positivo: il rifiuto di qualsiasi piano di organizzazione/azione e il disprezzo per la politica in qualsiasi declinazione è un fenomeno invece che investe l’agire politico istituzionale e non, e ha a che fare con la depoliticizzazione della società e la sfiducia verso ogni governance.

Di questo fenomeno, della rottura tra rappresentanti e rappresentati, non possiamo che rallegrarcene, sopratutto quando la rottura avviene nelle classi sociali che vengono quotidianamente sfruttate. L’astensione ci racconta la netta separazione tra individui e governo, tra politici e classi di riferimento ovvero un processo di delegittimazione, cioè il rifiuto di una fetta sociale ad essere governata da questa classe dirigente e a riconoscere l’utilità di qualsiasi strumento elettorale.

L’astensione è una scelta comprensibile e prevedibile sopratutto per le generazioni che non hanno mai partecipato al mondo politico dei partiti di massa e hanno subito inermi qualsiasi riforma reazionaria che sia passata sui tavoli del Quirinale negli ultimi trent’anni. Il presidente della repubblica e l’eco dei media si dicono preoccupati che forse il 70% dei giovani non andrà a votare, la vera notizia è che c’è ancora un 30% che ci andrà. La nostra generazione ci racconta il mondo che viene, dove la rappresentanza è superata come necessità e come patto sociale implicito, sia dalle masse come dai padroni. Multinazionali, milionari e banchieri hanno le mani talmente libere che al fine di perpetrare lo stato di cose presenti non hanno il benché minimo bisogno dei nostri voti ai loro partiti; certo la cinghia di trasmissione dei partiti esiste sempre per approvare leggi a favore dell’élite dominante, ma a colpi di decreti legge il parlamento come luogo di discussione e di rappresentanza degli interessi generali è sempre più inesistente, e con esso il concetto di rappresentanza e di legittimazione popolare.

La rappresentanza difatti è stata sempre uno specchio per le allodole che nasconde la realtà materiale della lotta fra classi. Nessun voto e nessuna percentuale hanno storicamente garantito la giornata lavorativa di 8 ore o l’assicurazione contro gli infortuni, se non la quotidianità dei rapporti di forza. I nostri diritti inalienabili sono tali fintanto che esiste una forza sociale in grado di contrastare interessi avversi, non fintanto che esiste un partito che fa mozioni in parlamento. I diritti non sono inalienabili perché abbiamo votato la costituzione o perché abbiamo scelto tra monarchia e repubblica, ma solamente perché c’è stata e c’è ancora una quotidiana lotta tra chi sfrutta e chi è sfruttato, lotta che nelle ultime decadi volge a sfavore delle masse.

La svolta della nostra epoca, della fine del Novecento, non sta in un’improbabile fine della Storia o delle ideologie ma nella fine dell’epoca della rappresentanza. La fase che ci troviamo davanti non è di crisi della democrazia costituzionale ma di superamento di essa, una svolta necessaria per le classi dominanti occidentali al fine di mandare avanti la macchina dell’accumulazione capitalistica, una svolta che allenta sempre di più i pochi lacci di controllo politico al potere economico, una svolta iniziata con l’epoca di repressione e ristrutturazione nei primi anni ‘80, e che accelera con le difficoltà dei movimenti antagonisti.

Commentando le scelte di chi, dal basso, sceglie di buttarsi nella diatriba elettorale non ci rifugiamo dietro nessuna critica a priori nei confronti del voto. Per quanto sia condivisibile rifiutare qualsiasi compromissione delle lotte con questo sistema in un gioco elettorale, sappiamo anche bene che la partecipazione alle elezioni per le forze rivoluzionarie è stato poco più di un secolo fa una necessità tattica dovuta al non superamento della fiducia negli strumenti parlamentari da parte delle masse, ovvero una scelta ragionata dettata da una congiuntura storica e da un’analisi della società. Ma oggi la società occidentale ci racconta ben altro.

I partiti di massa hanno concluso il loro ciclo storico, questo dovrebbe essere il primo campanello d’allarme. Con essi se ne è andata qualsiasi connessione tra partiti e realtà materiale del vivere quotidiano, ovvero tra élite e base, e gli impietosi dati dei tesseramenti ai partiti ce lo raccontano molto bene. Anche a volere resuscitare il putrescente cadavere dei partiti storici della sinistra, non si potrebbero spostare le lancette dell’orologio di trent’anni, invertendo la sfiducia e riportando un contesto storico favorevole a tale operazione. Non si potrebbe e sarebbe anche dannoso. Dopo anni di partiti e partitini, di ‘piromani’ che una volta finiti su una poltrona del parlamento sono diventati pompieri, e di sputtanamento massmediatico dei carrozzoni di centrosinistra e della parola comunista, siamo finalmente giunti alla dissoluzione della sinistra: niente più spazi di mediazione sociale, niente vie di mezzo tra le barbarie della destre più estreme e l’ipotesi rivoluzionaria, niente carrozzoni tra sigle comuniste che si sorprendono di percentuali da prefisso telefonico senza interrogarsi su quanto poco può valere un partito di classe senza lotte di classe, niente più favole di democrazie socialiste. Oggi il “contrario di destra non è sinistra: è rottura”.

Ricordiamoci sempre che dentro gli strumenti parlamentari non c’è nessuna ipotesi radicale, l’astensione così alta è invece il primissimo passo destitutivo per qualsiasi processo rivoluzionario, a cui dovrebbe seguire un piano di azione che conduca all’ingovernabilità. Ma non succederà se prima non riconosciamo l’imprescindibilità della sfiducia, che rompe, di fatto, con lo stato di cose presenti.

Oggi le democrazie europee vivono una crisi di sovranità forse irreversibile, ovvero un’incapacità di governare autonomamente, di controllare il potere nel contesto transnazionale, di affrontare tematiche inaffrontabili e di concorrere ad essere (per quanto falsamente lo siano sempre state) rappresentanti degli interessi del popolo. All’interno di esse la socialdemocrazia si è rivelata inutile e prona ai diktat UE di austerità e macelleria sociale, sia per mancanza di volontà politica sia per impossibilità di fare altrimenti in quel contesto.

La contemporaneità pare proprio insegnarci che qualsiasi processo di cambiamento radicale non può passare in nessun modo dalla cabina elettorale. Laddove si riuscisse pure a stabilire una maggioranza parlamentare, qualsiasi programma non diciamo radicale, ma quantomeno progressista sarebbe impossibile da realizzare, il governo Tsipras nella sua ignominia sta lì a ricordarci il suo inevitabile fallimento. Ed è fondamentale concentrarsi sull’inevitabilità della sua debacle, che non poteva esser altrimenti nel quadro di una governance europea impositiva di riforme da “lacrime e sangue” o la morte per default. I parlamenti sono traduttori di politiche stabilite altrove, i partiti, nel senso novecentesco del termine, sono gruppi di interessi in dissoluzione, la catena di comando si è stretta intorno al collo delle democrazie costituzionali e si erge su un territorio vastissimo campando sul disinteresse generale alla politica e sulla trasformazione del cittadino in suddito-consumatore. La sconfitta è certa nel contesto parlamentare ed europeo ma la partita è tutta da giocarsi se la strategia prevede la rottura, ovvero la destituzione.

Oggi abbiamo bisogno di una concreta analisi materialista della realtà e di un dibattito che riesca ad uscire dal vicolo cieco in cui pare siamo voluti finire. Il volontarismo che spinge molte persone ad ogni scadenza elettorale a mettere insieme quello che c’è, con un progetto di partito di lotta senza lotta di classe reale, ovvero in una fase repressiva e piatta dei movimenti, è in buona fede ma tatticamente tragico.

La scelta di chi si pone il dilemma dell’azione in risposta alle barbarie capitaliste e al fascismo che avanza, non può essere fra lista elettorale o morte. Questo sistema democratico-costituzionale ha già dato tutto ciò che siamo riusciti a strappare in termini di rappresentanza di classe e di riforme. Nella fase attuale non si può scegliere ancora di percorre strade fallimentari in partenza, con la scusa che male che vada abbiamo “parlato con la gente”. Investire forze potenzialmente radicali su un piano elettorale vuol dire oggi andare verso la sconfitta in un contesto, in ogni caso, senza via di uscita. La questione della ricomposizione di un tessuto sociale, di una classe che porti avanti lotte contro l’alto ha bisogno di riflessione su soggettività e organizzazione, nodi che non si risolvono nel breve periodo e non certo con la ricostruzione di un partito elettorale. Non possiamo illudere e illuderci, alimentando speranza in processi che non hanno via di uscita, dando ancora anni di vita e legittimazione al parlamentarismo e muovendoci in direzione contraria agli interessi di un soggetto rivoluzionario. Dobbiamo anzi acuire questa crisi, approfondire la distanza tra noi sfruttati e loro sfruttatori, andando ad incidere laddove non ci sono più spazi di manovra istituzionale ma spazi inesplorati di agire collettivo, di autonomia e di lotta. Oggi, pare un paradosso, ma scegliere la via elettorale è la scelta facile difronte alla complessa necessità di riorganizzare, di ripensare forme di vita e di lotta, di agire in contrapposizione. Non possiamo continuare a fomentare le illusioni che comodamente ci vendono, ma disvelare la brutalità della realtà, e la negazione dei pochi spazi pubblici che ci erano rimasti. Non possiamo resuscitare il cadavere del Novecento e della sinistra, non possiamo e neppure ci serve.

Andrea Rinaldi

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