Ripartire da zero

Il 2-3 giugno a Bologna alcuni compagni e compagne hanno deciso di promuovere una due giorni di discussione, chiamandola Zero. Una due giorni su che cosa? Su di noi intesi come compagni e compagne “di movimento” (espressione che di per sé non dice più niente ormai), sul nostro stato di crisi in termini di comprensione della fase storica in cui siamo e delle contraddizioni che la attraversano. E quindi anche crisi di progettualità e di efficacia dell’azione politica concreta. Assumere ciò come un dato di fatto da affrontare direttamente in una discussione collettiva, senza girarci intorno facendo finta che sia possibile andare avanti come abbiamo fatto fino ad ora – il “basta solo che il vento cambi, e poi…” ci pare un auspicio abbastanza ingenuo -, è già un primo merito che va riconosciuto a questo tentativo.

Proviamoci. Proviamo a ripartire da zero.

Di seguito riportiamo il testo di presentazione e il programma della due giorni:

 

Cosa significa ricominciare da zero?

“Innanzitutto proviamo a dire cosa non significa. Non significa, per esempio, pensare che ciò che sta alle nostre spalle vada ignorato o buttato via, per dirlo in una parola rimosso. Al contrario: prima dell’anno zero vi è una storia lunga e densa, fatta di faticosi passi avanti e rapidi precipizi, di nodi da ripensare ed errori da non ripetere, di domande che bisogna porre e risposte che non bisogna copiare, di ricchezze e limiti. Per non rimuovere ciò che sta alle nostre spalle, dobbiamo dunque ricominciare, perché le rivoluzionarie e i rivoluzionari in qualche modo ricominciano sempre.
In questo momento specifico, poi, questa affermazione – lungi da ogni afflato retorico – è una necessità molto concreta. Non siamo ancora in grado di definire in modo preciso la fase che stiamo attraversando, questo è anzi uno dei compiti che abbiamo di fronte. Sappiamo però ciò che si è esaurito: il ciclo dei centri sociali. Sia chiaro, i centri sociali esistono ancora, svolgono varie funzioni, dove sono sotto attacco vanno difesi in modo compatto. Il punto è che a essersi esaurito è il centro sociale come spazio di organizzazione della soggettività militante, di aggregazione della soggettività sociale, di produzione di linguaggi e pratiche spontanee di consistenti minoranze giovanili. Si è esaurito, e non certo da oggi o solo negli ultimi anni, il centro sociale come paradigma e simbolo per definire il noi del movimento. Ciò ci consegna un problema, che potremmo chiamare di identità, se la intendiamo in senso forte come un processo espansivo attraverso cui definiamo il nostro noi all’interno e all’esterno. Nella difficoltà di risolvere questo problema, tendiamo sempre più spesso a rifugiarci in un’identità debole, definita dall’ideologia e non dalla formazione della soggettività; un’identità che rinuncia nei fatti a una prospettiva rivoluzionaria che pur declama negli slogan; un’identità che non solo accetta la gestione della propria marginalità, ma fa di questa il centro del proprio agire.
Allora, cosa significa essere militanti rivoluzionari? Non è una domanda a cui si possa rispondere in astratto, se non cadendo in inutili decaloghi normativi, disincarnati, a-temporali. Possiamo invece impostarla e tematizzarla a partire dalle insufficienze e dai limiti, dalla crisi del nostro malandato “noi”, qui inteso in senso largo, di compagne e compagni e di gruppi che si autodefiniscono di movimento in assenza di movimenti, o nella difficoltà a esserne motore propulsivo quando questi ci sono, magari in forme ambigue e bastarde – come, del resto, sempre i movimenti prendono corpo. Cominciando da qui ci siamo trovati per discutere, con l’intenzione di condividere dei problemi e non delle soluzioni, con l’obiettivo di aprire una prospettiva di ragionamento e non di allearci in improbabili geometrie politiciste – che, sia detto per inciso, soprattutto in fasi come questa assumono tratti un po’ grotteschi e caricaturali. Partire concretamente e fino in fondo dalle nostre insufficienze e dai nostri limiti significa, ci pare, proporre una prima possibile inversione di rotta rispetto al metodo, allo stile, alla qualità e franchezza del rapporto tra compagni e compagne, all’abitudine radicata in noi di assemblee e incontri in cui – al di là di retoriche prolusioni sull’umiltà – raccontiamo la grandiosità dei nostri percorsi territoriali e le magnifiche sorti e progressive del “movimento”, in cui già tutto è risolto e le ricette già pronte. Come se l’unico problema fosse quantitativo e non qualitativo, come se facessimo tutto quello che bisogna fare, e magari si tratta di farlo solo un pochino di più.
Invece no, pensiamo che non facciamo tutto quello che bisogna fare. Anzi, pensiamo di aver magari mantenuto un’idea alquanto vaga dell’obiettivo, ma di aver perso le bussole per individuare i percorsi e costruire la direzione. In assenza di ciò, finiamo per riproporre bussole che non funzionano o che sono letteralmente impazzite, perfino quelle che non ci sono mai appartenute: così, per esempio, di fronte alle opzioni reazionarie o in senso lato neo-fasciste che sono espressione della crisi, finiamo spesso per reagire riproponendo categorie e dialettiche (finalmente) esaurite, come quella tra democrazia e autoritarismo, tra sinistra e destra. Laddove la sfida è, invece, contendere territori sociali alle opzioni a noi avverse, organizzare una materialità di comportamenti e condizioni che al contrario fatichiamo a comprendere o addirittura a immaginare come campo di battaglia.
Siamo consapevoli che partire dalle nostre insufficienze è una condizione necessaria ma non sufficiente. Insieme a questa operazione di verità, se non vogliamo restare intrappolati nell’impotente contemplazione della nostra crisi, dobbiamo provare ad articolare il problema per noi centrale, ossia quello di forme di militanza e di organizzazione all’altezza del presente. È un problema che va spacchettato per poi essere ricomposto, seguendo il filo non della nostra ideologia, bensì dei comportamenti concreti e dei processi di soggettivazione della composizione sociale e di classe, delle ambivalenze e ambiguità di cui sono permeati, delle forme di rifiuto e contrapposizione potenziali o che si esprimono con caratteristiche contraddittorie, perfino inquietanti, sicuramente molto diverse da ciò che noi immaginiamo, delle dinamiche di organizzazione spontanea in cui si creano mobilitazioni e pratiche che spesso, sempre più spesso, sfuggono alle nostre capacità di comprensione, relazione, intervento. Abbiamo inoltre cominciato a individuare alcuni nodi rilevanti attorno a cui focalizzare il ragionamento: la questione dei comportamenti giovanili, in rapporto alle industrie del sapere e al lavoro, al welfare e al reddito; la crisi del ceto medio e della sua funzione di mediazione sociale; la riproduzione, della vita e delle capacità umane; il tema della razza, che innerva la questione dei migranti e i rapporti sociali complessivi; il problema della formazione politica, legata al nodo dell’esperienza in una società che la distrugge continuamente, degli strumenti collettivi e molteplici da costruire; il ripensamento dell’antifascismo, in rottura con il frontismo democratico e radicandolo nella battaglia dentro la composizione sociale.
Pur ritenendo che essi abbiano una certa centralità, non pretendiamo affatto che questi nodi, qui proposti in modo alquanto generico, esauriscano la complessità dei temi che abbiamo di fronte. Coerentemente con il carattere processuale dello spazio di discussione che tentiamo di avviare, apriamo questa prima bozza di riflessione all’individuazione di ulteriori temi, ovvero alla migliore definizione di quelli qui schematizzati. L’unica avvertenza che ci poniamo è di non compilare una lista della spesa, altro storico vizio che ci portiamo dietro nelle nostre assemblee, cioè una sommatoria di questioni che restano poi separate e sospese nel vuoto. Dopo aver spacchettato la questione, si tratta di legare e intrecciare i nodi politici dentro un quadro complessivo di ricerca e confronto.
Su queste basi, proponiamo di incontrarci sabato 2 e domenica 3 giugno a Bologna. L’invito non ha perimetri, essendo rivolto a tutte e tutti coloro – singoli e partecipanti a realtà collettive – che condividono la necessità di discutere e ragionare a partire dall’insoddisfazione per il nostro presente, non solo quello in cui siamo collocati socialmente, ma anche quello che abbiamo scelto politicamente; la necessità di parlare e confrontarci ripensando i nostri lessici e le nostre categorie, non riproducendo le fraseologie in codice tra gruppi e le piccole polemiche crittografate a cui siamo tanto, troppo abituati. Vorremmo infatti che l’incontro fosse realmente aperto, anche a quelle soggettività che non si definiscono direttamente militanti e sono portatrici di saperi, linguaggi e capacità che troppo spesso i nostri ambienti non sanno valorizzare.
Può essere il primo passo della costruzione di un processo? Questa è la scommessa. Un processo però, si badi bene, che non ha alcuna finalità in termini di ricadute pratico-organizzative, proprio perché agisce su un altro piano: sul piano del ragionamento di prospettiva, sulla costruzione collettiva cioè di una temporalità differente, di medio e lungo periodo. Per essere chiari fino in fondo: non ci interessa organizzare nessuno spazio politico alternativo a quelli esistenti, perché l’ordine dei problemi che dobbiamo affrontare viene prima di qualsiasi esperimento organizzativo. Oggi è soprattutto il tempo di avviare un percorso di ragionamento e di confronto collettivo – a partire da alcune indicazioni di metodo che riteniamo necessarie – sulle nostre difficoltà a intercettare i comportamenti e le soggettività prodotti dalla crisi e sulle possibili strade da intraprendere. A questo scopo, vorremmo provare a fare in modo che questo incontro abbia l’intensità dell’approfondimento seminariale e l’apertura composita del confronto assembleare.
Nell’ottica processuale che abbiamo scelto, invitiamo coloro che sono interessati a far circolare riflessioni, suggerimenti, proposte, critiche, così da elaborare nelle prossime settimane una scaletta per l’incontro.
Siamo consapevoli che in questo percorso faremo degli errori, procederemo per tentativi, agiremo delle approssimazioni. Pensiamo tuttavia che il principale errore sia quello di continuare senza porci problemi di fondo, cioè senza metterci radicalmente in discussione.
Insomma, l’anno zero non ci viene consegnato dalla storia; l’anno zero va conquistato dalla soggettività.”

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Programma Zero

Il programma che leggerete più sotto è semi-definitivo, potrà cioè subire delle modifiche sulla base delle risposte alla call che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi.

La ripartizione del programma in tavoli e assemblee è stata scelta da un lato per valorizzare la discussione sui singoli temi e dall’altro per evitare la frammentazione e la separazione tra elementi che bisognerebbe invece provare a tenere insieme.
Nell’assemblea di apertura del primo giorno la consueta presentazione sarà seguita dalle relazioni introduttive ai tavoli di discussione. 

Zero si terrà presso la casa del popolo “Venti Pietre”, in Via Marzabotto, 2 a Bologna

2 Giugno_Sabato

10:30 – 13:00
Assemblea di apertura e introduzione dei tavoli di discussione

13:00-14:30
Pausa pranzo

15:00 – 17:30
Tavoli di discussione
(si terranno contemporaneamente e saranno coordinati da un* responsabile)

Crisi e ceto medio: Il ceto medio non va interpretato in termini socio-economici bensì strettamente politici. È, in forme spazialmente e temporalmente determinate, il prodotto di articolati accordi politici e sociali – tra Stato e Mercato – finalizzati alla produzione di un corpo sociale intermedio con la funzione di mediare l’antagonismo tra le due macro parti del conflitto di classe. Con la crisi, dopo il grande Novecento dello scontro di classe, per l’élite dominante il costo politico della sua riproduzione è diventato superfluo e insostenibile, tant’è che oggi possiamo parlare di una “crisi di mediazione” del ceto medio. Quali sono le forme e gli strumenti di mobilitazione politica, di politicità estrinseca e intrinseca che animano questo corpo sociale? Si tratta di soggetti sociali e politici ontologicamente di destra oppure è possibile torcere a nostro favore l’ambivalenza anti-sistemica che caratterizza il loro agire politico?

Antifascismo: L’ultimo frangente della campagna elettorale è stato segnato dalla ripresa di una politica di “movimento” antifascista, che le istituzioni e i partiti garanti della democrazia liberale hanno tentato di utilizzare come strumento di ri-legittimazione politica, dopo naturalmente avere concesso ampi margini di agibilità alla destra neofacista. Per non cadere nella falsa alternativa tra opzione democratica e opzione reazionaria, occorre quindi rilanciare l’antifascismo contro ogni forma di frontismo democratico e radicarlo nella battaglia dentro la composizione di classe, affinché non diventi un feticcio ideologico utile solo al rafforzamento della nostra identità difronte all’impasse politica che caratterizza questa fase. La crisi ha spazzato via la medietà benpensante dell’homo democraticus, non possiamo quindi permetterci di abbandonare lo spazio della radicalità alle organizzazioni neo-fasciste. Come coniugare allora lotte sociali e politica della trasformazione con l’antifascismo? Quali sono i luoghi dove è possibile aggregare nuove soggettività antifasciste oltre la stretta cerchia militante?

Comportamenti giovanili, formazione, lavoro: La generazione non va intesa in termini meramente anagrafici e sociologici, ma innanzitutto politici. Se da un lato è una linea di frammentazione della composizione di classe, che distribuisce diverse percezioni di sé, aspettative e forme di vita, dall’altro può essere una potente leva di conflittualità. Quali sono i comportamenti, i luoghi, le forme di aggregazione e organizzazione giovanili che potrebbero interessarci? Quali sono le forme di rifiuto e accettazione nei luoghi della formazione e della riproduzione sempre più lavorizzati? Come ripensare l’intervento dentro e contro le industrie della formazione (in primis scuola e università), in uno scenario di un mutamento della soggettività studentesca che fatichiamo a comprendere?Quali sono le produzioni culturali egemoni e per quali ragioni hanno successo? Qual è il rapporto con le nuove tecnologie e che effetti hanno prodotto sulle soggettività? Come ci poniamo politicamente di fronte all’ipotesi, tutta da verificare, delle aspettative decrescenti? In assenza di garanzie per il sostentamento e per l’autonomia individuale si sono sviluppate forme di illegalismo con una politicità intrinseca? Sono solo alcune delle possibili domande attorno al tema dei comportamenti giovanili a cui però bisognerà rispondere, se non si vuole fare ideologia o scadere nel romanticismo, sottolineando di volta in volta le ambivalenze.

Razza e migrazioni: Nominare la razza è un tabù a sinistra, come se il semplice farlo legittimasse il razzismo. Che la razza non sia un dato biologico è fin troppo ovvio per ripetercelo tra di noi; il punto, tuttavia, è che in quanto costruzione sociale è un potente dispositivo di gerarchizzazione e sfruttamento. Per combattere gli effetti di questo dispositivo, dobbiamo quindi nominarlo. I soli a farlo sono i reazionari, da posizioni chiaramente razziste. Per combatterle, però, dobbiamo andare oltre e contro l’antirazzismo umanitario, che resta intrappolato nella dialettica senza fine in cui le retoriche della sinistra e della destra si alimentano reciprocamente: nel primo caso i soggetti razzializzati, deprivati della loro soggettività, sono pure vittime bisognose di protezione, nel secondo caso diventano portatori di un’invasione da combattere. Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia. Spesso anche negli ambiti di movimenti riproduciamo i lessici dell’antirazzismo umanitario: vorremmo provare a metterli in discussione, non solo teoricamente ma nella concretezza delle nostre pratiche. E la questione non riguarda solo i migranti, perché la razza è un dispositivo complessivo di riproduzione dei rapporti di sfruttamento. Come allora riuscire a immaginare delle ipotesi di alleanza o ricomposizione al di fuori delle mere ideologie solidaristiche e vittimizzanti?

Riproduzione delle capacità umane: Quello della riproduzione è un tema ampio e dirimente, che si presta a molteplici letture e declinazioni, che vorremmo cominciare a mettere in relazione e a confronto. E’ la riproduzione della forza-lavoro, che la critica femminista ha da tempo individuato come terreno centrale della produzione e lavoro occultato e perlopiù non pagato. E’ la riproduzione della vita, degli spazi urbani e del contesto ecologico in cui avviene, questione che non può mai essere separata (come troppo spesso è avvenuto in un ecologismo verde e settoriale) dai rapporti di sfruttamento e dominio capitalistici. E’ complessivamente la riproduzione della capacità umana, nodo centrale che dovrebbe attraversare e innervare l’intero spettro dei nostri ragionamenti: dalla formazione alle nuove tecnologie, dalla comunicazione al rapporto con le macchine. Come è possibile fare della riproduzione un campo di battaglia? Quali sono le pratiche di autonomia e di conflitto ipotizzabili? Come si può reimmaginare un processo di arricchimento della soggettività, come costruire luoghi in cui si possano fare esperienze contro una società che quotidianamente impoverisce le nostre capacità e distrugge senso e aspettative? E ancora quali possono essere le forme durature ed estensive di contro-produzione delle nostre capacità umane libere dal giogo del rapporto di capitale?

18:00 – 19:00
Condivisione dei report dei singoli tavoli di discussione

19:30
Presentazione della rivista “Accorretti”

3 Giugno_Domenica

11:00 – 14: 30
ASSEMBLEA PLENARIA”

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