Di divani, consumi immorali e nuove forme di controllo e sfruttamento. Era questo il reddito che sognavate?

Gli ultimi mesi di governo, dopo una prima fase che ha visto l’assoluto protagonismo della componente leghista dell’esecutivo, che nei sondaggi sembra aver cannibalizzato buona parte dell’elettorato dei partiti concorrenti a destra, e forse anche una piccola quota di quelli del M5S, sono stati segnati da una serie di tentativi più mediatici che effettuali a dire il vero, si pensi solo ad Autostrade che dopo tanti proclami infiammata continua a rimanere salda nelle mani dei Benetton, per non parlare poi della figuretta da Pinocchio a proposito del Tap pugliese, o dell’accordo sull’Ilva – di recuperare terreno e visibilità mediatica da parte delle componente pentastellata. Il cosiddetto reddito di cittadinanza, resta da questo punto di vista la promessa più importante che il M5S è chiamato se non vuole perdere completamente la faccia di fronte ai milioni di giovani e meno giovani, precari e disoccupati cronici che, soprattutto al Sud, hanno scelto di votare la compagine di Di Maio proprio nella speranza di vedere questi soldi.

Ci sono mille motivi per criticare fortemente questo reddito, l’impianto ideologico che lo sorregge e i dispositivi perversi che va a varare, tuttavia bisogna riconoscere che la manovra del M5S ha il merito di portare dinanzi a un pubblico di massa un dibattito che è anche culturale rispetto al reddito come idea in sé. Che poi si arrivi a ciò all’interno di una cornice ideologica inquietante, che non c’entra nulla con quell’idea di reddito per cui i movimenti sociali si sono battuti negli ultimi anni, questo meriterebbe una riflessione a parte.

Lo diciamo fin da subito a scanso di equivoci, è la premessa fondamentale da cui partono le critiche a questo (pseudo)reddito che andiamo a esporre, l’impostazione con cui le formuliamo: per coloro che ne faranno domanda perché hanno bisogno di questi soldi per campare, noi abbiamo la massima comprensione e solidarietà, ne condividiamo anzi il bisogno in quanto studenti, disoccupati, lavoratori precari o saltuari, ci collochiamo davvero agli antipodi rispetto a chi li bolla come parassiti.

Alcuni magari, anche a sinistra, non capiscono perché non vada bene il principio per cui lo Stato ti dà dei soldi a patto che tu lavori un po’ per lui, che tu ti dia da fare per cercare lavoro, che tu segua corsi di formazione, che tu dimostri insomma, a ogni ora del giorno, di farti il culo per meritarteli, e che sia giusto punirti e toglierti il reddito se sgarri o fai il furbo. Sono dopotutto dei dubbi legittimi e comprensibili, tutta la storia del capitalismo e la cultura che lo accompagna e che ne è figlia (compresa la sinistra e il marxismo in qualche modo) è intrisa di lavorismo, del principio per cui “chi non lavora non ha diritto di mangiare”, ed è un reietto e un parassita della comunità.

Le minacce di Di Maio di 6 anni di galera a chi pensa di poter prendere questo reddito “standosene sul divano”  sono figlie di una cultura secolare che occorre decostruire anche culturalmente, recuperando dai territori sommersi del Novecento alcune esperienze queste sì, davvero rivoluzionarie, quali sono state le pratiche di rifiuto del lavoro elaborate dall’Autonomia e dai movimenti degli anni Settanta.

Per provare a seminare dubbi all’interno di questo senso comune che quasi nessuno (men che meno il M5S) vuole ad oggi mettere in discussione, partiamo da alcuni assunti di base che non possiamo non porre come premesse, ovvero:

a)che la possibilità di non lavorare non è scritto in nessuna legge naturale debba necessariamente produrre l’inattività e l’apatia, e non invece il diritto all’otium, al dispiegamento del proprio essere in attività conformi alle sue inclinazioni, abilità, desideri, e anche alla loro socializzazione e condivisione, a una attiva pigrizia, per così dire;

b)che questa condizione sia qualcosa di meraviglioso e di auspicabile, specie se confrontata alla realtà dello sfruttamento del lavoro salariato nel capitalismo, alla distruzione di capacità umane e al furto del tempo di vita a causa di un lavoro spesso non solo alienato e malpagato, ma anche irrazionale, assurdo o nocivo per la collettività, benché marcato dalla generazione di un profitto e quindi da una scambio di denaro;

c)che questa condizione non sia solo auspicabile, ma sia resa materialmente possibile dall’automazione tecnologica, se questa non fosse gestita dai capitalisti per il loro profitto, ma fosse invece nelle mani della grande maggioranza delle persone sprovviste di mezzi di produzione, e che quindi questa possibilità vada conquistata e strappata con la forza ai padroni con una rivoluzione.

Per quale motivo, allora, il cosiddetto reddito di cittadinanza che il governo gialloverde si appresterebbe a varare risulta lontano anni luce da tutto questo – allo stesso modo, per inciso, di quasi tutte le varie forme di “reddito” capitalisticamente compatibili che troviamo in altri paesi, come ad esempio in Gran Bretagna ?

Perché invece di produrre emancipazione, è funzionale a produrre nuove forme di controllo della povertà, nuove forme di dipendenza e subordinazione. Non per un principio ideologico che pure avrebbe senso discutere  – se parliamo di reddito in senso stretto, ci vuole che qualcun altro, da cui si dipende, lo eroghi -, ma per i rapporti di forza concreti tra le classi, dal momento che questo reddito annunciato rappresenta una manovra dall’alto, non è cioè il frutto di una lotta di massa. Se ci basiamo su quanto ne sappiamo finora (per una sintesi dettagliata della bozza del provvedimento, di cui comunque è ancora niente affatto scontata l’approvazione, rimandiamo a questo link) possiamo dire che non è emancipatorio perché:

1)è (o dovrebbe essere: c’è anche una questione giuridica in ballo) di cittadinanza appunto, quindi spacca ancora una volta i subalterni creando gerarchie sulla base delle nazionalità, ribadendo chi ha diritto a far parte di questo patto e a goderne i relativi “benefici” e chi no, o comunque in misura minore e più limitata;

2)Non è un reddito in definitiva. Sommando le 8 ore settimanali di lavoro, le 2 ore al giorno di formazione e riqualificazione professionale che sarà obbligatorio frequentare, e la ricerca attiva e assidua di un’occupazione che occorrerà documentare, parliamo di una messa al lavoro vera e propria;

3)è a tempo determinato, si parla al momento di massimo 18 mesi, eventualmente rinnovabili. E poi?;

4)Il forte disincentivo a mettere da parte i soldi del “reddito” è contrario ad ogni principio di libertà e autodeterminazione. Se uno ad esempio volesse aprire una piccola attività imprenditoriale o artigianale in assenza di finanziamenti dalle banche con i soldi di questo reddito, o anche mettere da parte soldi per ingenti spese mediche future, non potrebbe farlo. In pratica si dice che finché godi di questa prestazione (vedi il paniere delle spese limitate ai beni di prima necessità) hai solo diritto di sopravvivere;

5)Data la sua natura, esso non è l’architrave di alcuna rivoluzione del welfare in senso progressivo. Va a colmare una lacuna che l’Italia ha maturato da tempo rispetto agli altri paesi europei, ma il rischio grosso che corriamo prossimamente, in assenza di lotte di massa da parte dei lavoratori, è che questo reddito vada a sostituire tutti gli altri ammortizzatori sociali, dalla Naspi alla cassa integrazione, togliendo quindi ulteriori diritti (i contributi pensionistici soprattutto) e ribassando l’ammontare stesso della prestazione che oggi arriva anche a 1200/1300 euro a seconda dei casi.

6)Visti i numeri assai elevati di coloro che ne faranno richiesta (5 milioni la platea di possibili beneficiari), in assenza di un piano straordinario di investimenti pubblici di cui al momento non c’è traccia, tutta questa manodopera messa al lavoro andrà assai probabilmente ad erodere il lavoro che viene già svolto da chi è impiegato nei servizi pubblici, creando quindi ulteriore disoccupazione pronta a transitare in un circolo vizioso, nella sotto-occupazione di tutti coloro che fanno domanda del reddito.

Questo pseudo-reddito infatti, attraverso tutta la serie di requisiti che ne condizionano l’accesso e il mantenimento, lungi dal fornire alcuna emancipazione reale dalla povertà, serve più che altro a disciplinare il mondo del non-lavoro, a garantirgli una re-inclusione in quella “repubblica democratica fondata sul lavoro”, a prezzo però di un pesante disciplinamento del proprio tempo e del controllo dei propri consumi e della propria condotta. Non poteva essere diversamente, del resto: senza mobilitazioni di massa a sostegno di un altro tipo di reddito, realmente a tempo indeterminato e incondizionato per tutti coloro che ne hanno bisogno, è normale trovarsi di fronte l’ennesimo imbroglio.

Che fare allora? Proprio perché non ci può bastare una critica ideologica, giusta ma puramente testimoniale, incapace di fare i conti col bisogno concreto di quei milioni di persone che hanno votato il M5S proprio nella speranza di ricevere questi soldi per poter barcamenarsi con un po’ meno difficoltà, pensiamo sia necessario confrontarci e a organizzarci insieme a chi si aspettava e vorrebbe un altro tipo di reddito.

Diciamo no all’ennesima presa in giro, ma vogliamo farlo materialisticamente. In che modo? Qui sta tutta la difficoltà. Non abbiamo soluzioni pronte a disposizione, ma partire con l’immaginarci alcuni scenari prossimi che potrebbero presentarsi e capire come muoversi rispetto ad essi, ci sembra perlomeno un inizio. Se ad esempio dovessimo assistere all’emergere di una serie di comportamenti ambigui, a forme sporche di rifiuto e sottrazione ai rapporti di sfruttamento, quale appunto prendere il “reddito” e lavorare al contempo in nero, oppure a dei tentativi di sabotare la propria messa al lavoro o l’obbligo di seguire percorsi di formazione inutili e svalutativi delle proprie capacità, dovremmo porci l’obiettivo e il compito di comprendere queste forme spontanee di “opposizione”, e di contribuire poi alla loro organizzazione e alla loro evoluzione in rivendicazione politica vera e propria.

Ben venga la furbizia proletaria, il volere di più lavorando meno fottendo le regole. Perché quando il patto non è alla pari, quando non è fondato su una qualche distribuzione della forza tra le parti, come avviene oggi, come sempre avviene dalla nascita del capitalismo per il lavoratore costretto in solitudine a mendicare al padrone un’occupazione per non morire di fame, anche lavorando 16 ore al giorno, mettendo a rischio la propria salute e rinunciando alla propria vita, o lavorando gratis per una settimana o un mese (e non si può dire che da allora non abbiamo fatto grandi progressi in questa direzione) con la promessa di essere assunto e pagato dopo, è proprio l’intero tavolo materiale e morale che va capovolto.

Una cosa è certa. Ben lontani dall’essere di fronte a una rivoluzione, la cornice ideologica che accompagna questo reddito, la guerra di Maio & Co ai disoccupati sul divano è animata dallo stesso identico disprezzo dei vari Monti, Poletti, Fornero, di chi fino a poco tempo fa sputava in faccia al furto di prospettive di un’intera generazione definendo i giovani “choosy”, “bamboccioni”, e via insultando. Che cosa sono le minacce di Di Maio e le sue raccomandazioni moralistiche sul buon uso del reddito, se non l’ennesima riedizione dell’atteggiamento paternalistico di uno Stato che si rapporta ai giovani, ai precari e ai disoccupati, come ci si comporta di fronte a degli adolescenti capricciosi e scostumati, a cui è pericoloso lasciare troppe libertà su come spendere la “paghetta”?

Le nostre vite valgono ben più di così. Dobbiamo tornare a dirlo, a urlarlo collettivamente, a riprenderci le strade per riscattare la nostra dignità senza elemosinarla a colpi di decreti fuffa, smettendo di nutrire inutili speranze nel demagogo di turno. E dobbiamo trovare anche le parole per farlo, parole per dare forma ai nostri interessi e ai nostri bisogni, per non essere sempre parlati da altri, per non essere sempre parlati dall’alto. Vogliamo un vero reddito, incondizionato, per avere finalmente la libertà di autodeterminare le nostre vite. 

Perché se la vita e i lavori che ci offrono sono quelli che sperimentiamo lavorando gratis durante l’alternanza scuola-lavoro, in uno stage o in un tirocinio sottopagato che ne prelude solo a un altro ancora, forse è il caso di dirsi che l’unica buona ragione per alzarsi dal divano è per riprendere confidenza con le piazze e con i loro selciati.

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