La legge è uguale per tutti, ma alcuni politici sono più uguali di altri

Il voto di lunedì sulla piattaforma Rousseau segna uno spartiacque nel percorso dei M5S. Non certo per chi ne segue e ne addita le contraddizioni da anni ormai. Non c’è alcun fulmine a ciel sereno da questo punto di vista. Ma stavolta il fatto interessante è che queste contraddizioni si manifestano in maniera dirompente dentro la stessa base del M5S. Cosa è successo infatti?

è successo che la maggioranza degli iscritti alla piattaforma grillina (quelli che sono riusciti a votare si intende, nonostante la marea di problemi tecnici che hanno ostacolato e in parte inficiato lo svolgersi del voto) hanno stabilito che un ministro non debba essere processato per sequestro di persona, in quanto “avrebbe agito secondo l’interesse dello Stato” impedendo di sbarcare alle 177 persone della nave Diciotti. E non un ministro qualunque, ma il vicepremier Salvini, il vero capo politico dell’esecutivo. è stato un referendum politico quindi, un giudizio pro o contro il governo e soprattutto rispetto al bilancio costi-benefici (bilancio che i leader pentastellati hanno sempre più paura di fare) della partecipazione M5S all’esecutivo.

Quello che la giornata di lunedì fa emergere è una spaccatura difficilmente ricomponibile all’interno della base del M5S; tanto più significativa (59 % vs 41 % circa) in ragione dell’indirizzo palesemente teso a salvare l’alleato di governo con cui sono stati scritti i quesiti. Una frattura inevitabile che si è finalmente manifestata all’interno di un movimento che, come in un grande calderone, ha mescolato le persone e le idee più disparate accomunate dal comune denominatore del più autentico ed italianissimo malcontento, restituendo, come nelle migliori brodaglie, una politica dal sapore indefinito.

Il M5S ha cavalcato la tigre del “giustizialismo” ed oggi quella stessa tigre lo ha sbranato, mostrando una forza di governo messa all’angolo che decide di fare harakiri proponendo un metodo decisionale degno del miglior Ponzio Pilato. Serve a poco infatti dire che “così ha deciso la base”, se con un voto del genere quella stessa base va in pezzi. Quello che si prospetta nei prossimi mesi è lo sfaldamento del primo partito italiano, spolpato a destra da un alleato di governo ben più capace di fare risultato e di offrire una visione della società compiutamente definita, e dissanguato a sinistra dalla crescita dell’astensionismo. Già nelle ultime elezioni regionali in Abruzzo, con la Lega divenuta primo partito (in una regione del centro-Sud!) e il M5S che vede le sue percentuali dimezzarsi rispetto a un anno fa, perdendo 20.000 voti anche rispetto alle precedente regionali del 2014, si sono viste inequivocabili tracce di questo trend.

Il fallimento del M5S, la facilità con cui cade continuamente in contraddizione, la resa all’agenda politica di un partner di governo a cui ha finito con l’andare quasi sempre a rimorchio pur avendo avuto il doppio dei voti e dei seggi alle elezioni dello scorso 4 marzo, non è altro che l’ovvia conseguenza della fragilità di fondo di questo partito, della mancanza evidente di una tradizione e di una cultura politica di riferimento (evidente sintomo di ciò, lo smarrimento rispetto a quale gruppo collocarsi in Europa), e più in generale dell’assenza di una vera e propria preparazione ed esperienza politica da parte del suo gruppo dirigente.

Quella del M5S è tutta una politica delle contraddizioni: si elogiano i gilet gialli francesi e poi si introducono reati come quello di blocco stradale (fino a 6 anni di carcere) per chi attua le loro stesse pratiche; si tace sulle ruberie milionarie del secondo partito italiano mentre si promettono anni di galera a chi decide di non sottostare a quelle regole sadiche e perverse di un provvedimento che produce asservimento in cambio di briciole come il reddito di cittadinanza; si promettono tanti No, alla Tap, all’Ilva, agli F35 (adesso si punta tutto sulla Tav per non perdere del tutto la faccia), che poi si trasformano in mansueti Sì. Ma la contraddizione più grande è che il M5S siede sulle poltrone dell’esecutivo grazie ad un’alleanza di governo, quando per anni aveva urlato ai quattro venti che non ci sarebbe stata alcuna alleanza coi partiti, tanto meno nessun “inciucio” post elettorale con i rappresentanti della “Casta”, della vecchia politica.  

Quando non sai chi sei, quando sei tutto e il contrario di tutto a seconda delle circostanza e non te ne accorgi, sei in balia del primo che passa. Salvini da politico navigato qual’è ne ha saputo approfittare, perché Salvini a differenza del M5S conosce bene l’essenza della politica, ovvero la capacità di tracciare con chiarezza la linea dell’amicizia e dell’inimicizia. E l’ha tracciata nella forma più netta e feroce, la più compatibile con il perpetuarsi dell’oppressione e dello sfruttamento strutturale su cui si regge la nostra società: dividere materialmente il campo in italiani vs migranti è oggi più facile e compatibile con il capitale che agitare senza conseguenze lo slogan popolo vs élites.

Il populismo di lotta e di governo serve solo a depotenziare la lotta contro il governo di una fetta consistente di popolazione che avrebbe tutto l’interesse a muoverla e a portarla fino in fondo. Ora che le contraddizioni si fanno evidenti, ora che degli spazi si riaprono (anche se di qui a dire che verranno riempite da delle lotte radicali e di massa invece che dal rafforzarsi della disillusione ce ne corre assai…), tocca a noi tornare ad approfondire queste spaccature. Non c’è alcun antidoto all’irrigidimento neoautoritario in atto in Italia e in tutta Europa che la pratica del conflitto sociale.

Per cui lasciamo il giustizialismo come bussola politica a un partito fallito, e a quella ancora più fallita sinistra manettara che gli ha spianato la strada, e Salvini pensiamo a processarlo nelle piazze. Possibilmente insieme a dei pezzi dell’elettorato 5 stelle che si rendono conto della fragilità delle loro speranze e del tradimento delle promesse a cui avevano dato credito.

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