Sulle ultime elezioni europee

Era tutto prevedibile, eppure vederlo realizzato per davvero rimane impressionante. Basta fare un confronto con le elezioni politiche del 2018: La Lega di Salvini in appena un anno raddoppia le percentuali (dal 17,4 al 34,3) e ottiene 3 milioni e mezzo di voti in più, divenendo il primo partito nazionale, con percentuali notevoli e abbondantemente a doppia cifra pure nel Meridione. Verticale invece lo schianto del M5S, che rispetto alle politiche del 4 marzo 2018 dimezza le sue percentuali e perde ben 6 milioni di voti (17,1 %, con appena 4 milioni e mezzo di consensi), finendo terzo partito assai dietro pure al PD di Zingaretti, che malgrado una illusoria ripresa (+ 4 % in percentuale), riesce a perdere altri 100.000 voti. In netto calo Forza Italia, che vede dimezzare i propri consensi e perdere il 5 % (2.350.000 circa ottenendo l’8,8 %), mentre è in leggero aumento Fratelli d’Italia, che con +300.000 voti si attesta al 6,4 %.

Venendo ai vari cespugli che non superano la soglia di sbarramento: stabile + Europa (830.000 voti circa), al 2,3 % Europa Verde; decisamente – e prevedibilmente – deludente la performance de La Sinistra (1,8 % con 470.000 voti circa); relativamente notevole la piccola avanzata del Partito comunista di Rizzo, che sfiora quasi l’1 % raddoppiando i propri voti rispetto all’anno scorso. Ancora più insignificanti (e pure il nostro territorio non fa eccezione) Casa Pound, che perde i 2/3 sia dei propri voti che delle percentuali raggiunte alle politiche, che Forza Nuova. Il “fascismo del terzo millennio” è al governo, non sembra per ora esserci molto spazio fuori.

Si tratta di una tornata elettorale che, in Italia, è stata impostata in gran parte come una battaglia di politica interna, come un test sull’operato del governo giallo-verde in questo primo anno, o meglio come un referendum su Salvini.  Inequivocabile l’esito. Catalizzando sulla sua figura e sulla sua agenda la polarizzazione sociale, ha ridotto il ben più forte (solo sulla carta, a conti fatti) alleato pentastellato al ruolo di stampella, su cui scaricare il costo delle promesse di cambiamento non mantenute, incassando invece per sé il consenso derivante dalla politica dura sull’immigrazione o da provvedimenti attesi come quota 100. 

Prima di gridare all’avvento di un periodo nero dai tempi geologici, faremmo tuttavia meglio a ricordare che anche il Pd di Renzi alle Europee del 2014 prese oltre il 40 %, pure più della Lega di Salvini. Nel giro di due anni e mezzo sappiamo dove è finito. La bravura comunicativa, l’egemonia sul piano del simbolico e della rappresentazione, nella liquidità che caratterizza la nostra epoca, possono portare sulla cresta dell’onda per un po’, ma appunto, non danno garanzie rispetto al consolidamento di alcunché. Salvabanche, mancata crescita, riforme antipopolari come Buona scuola e Jobs Act che hanno fallito rispetto alle promesse di nuova occupazione, hanno via via eroso e dilapidato il consenso che Renzi aveva saputo guadagnare.

Andrà così anche con Salvini? Con questi tempi? Azzardato dirlo. Soprattutto, non bisogna dimenticare che la Lega di Salvini si afferma in un contesto internazionale che vede una crisi egemonica dell’ordine neoliberale, incalzato – ma non ancora scalzato – dall’avanzata di nuovi nazionalismi e da nuove (spesso confuse e ambigue, e proprio per questo da non rigettare in toto) domande di sovranità popolare da opporre alla governance di istituzioni non democratiche come la stessa Unione Europea. Ma c’è anche nel mezzo una crisi sociale, culturale, di identità: una domanda di “fascismo”? Sicuramente una domanda di destra intesa come ritorno a un ordine gerarchico della società, che sottometta in maniera violenta le donne, i migranti, le persone sessualmente non eteronormate, i poveri. Si tratta di una risposta forte alla crisi sociale e di identità del nostro tempo. Repellente per quel che ci riguarda, ma comunque forte, quindi per alcuni desiderabile come possibile risposta allo smarrimento, all’insicurezza e al senso di fragilità che vivono le masse occidentali oggi, al bisogno di protezione che queste avanzano.

Qual è l’altra opzione forte, dall’altra parte? Non c’è, questo è il problema. Il disastro non sta tanto nelle percentuali irrisorie dei cespugli di sinistra alle urne. Sta nella mancanza di un progetto politico forte e organizzato di rottura dell’ordine neoliberale esistente (quindi anche dell’Unione Europea e dell’Euro, se necessario; ci siamo già scordati quello che è accaduto alla Grecia nel 2015?), un progetto che viva nel cuore della società, dentro un movimento reale. Che questo movimento non ci sia (né nel nostro paese né nel resto d’Europa, fatto salvo forse il movimento dei gilet gialli in Francia) è il vero dramma di queste elezioni europee.

Nell’immediato, in Italia, il trionfo della Lega determinerà con ogni probabilità un ulteriore peggioramento a livello repressivo e oppressivo contro tutti i soggetti già bersaglio delle politiche salviniane, a partire dal decreto sicurezza-bis. Così come un’ulteriore cannibalizzazione del M5S, sempre più debole e bastonato. Ma teniamo bene a mente che questo governo non ha in mano alcun progetto reale di crescita economica (sia pure ulteriormente distruttiva di ambiente e salute e a prezzo di ancora più sfruttamento del lavoro) a medio termine, e che una nuova crisi finanziaria globale dagli effetti anche peggiori di quella del 2008, capace di far detonare nuovi conflitti che spacchino anche questo fronte reazionario, è sempre dietro l’angolo. Nessuna partita è chiusa se non quella da cui ci si ritira.

Infine, senza alcun spirito consolatorio né interpretazioni semplificatorie, rimane l’enigma di questo 44 % di astenuti, in aumento anche rispetto alle Europee del 2014. Astenuti per disinteresse, per rassegnazione, per rabbia, per pigrizia, per mancanza di una rappresentanza in cui riconoscersi, per rifiuto esplicito della rappresentanza stessa. Moltissimi, sicuramente, per delusione verso le promesse non mantenute del M5S. E per molti altri motivi e micro-sfumature, probabilmente. Se è difficile leggere questa massa di astenuti se non in negativo (“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”) resta come dato oggettivo che l’affermazione “la maggioranza degli italiani sta con Salvini” risulta ben lontana dalla realtà. Come hanno scritto i Wu Ming sul loro blog: “Se proprio si vuole ragionare in termini di percentuali, ragionando sul 100% reale vediamo che la Lega ha il 19%, il PD il 12%, il M5S il 9,5%. Sono tutti largamente minoritari nel Paese.”

Occorre anche dire a scanso di equivoci, che continuare a contestare Salvini nelle piazze come è stato fatto ovunque nelle ultime settimane con svariate modalità, da quelle più radicali e antagoniste a quelle più simboliche e creative, non solo è necessario, ma è anche utile. Per far emergere una contrapposizione che esiste nella nostra società, per ricompattare in un’ottica di attacco e non solo di resistenza la nostra parte politica, per togliere al Pd e al centro-sinistra neoliberale le redini o anche la stessa semplice agibilità delle piazze antifasciste e dell’opposizione sociale.

Semplicemente, dobbiamo essere ben consci che non si può recuperare in breve tempo riconoscimento e presa delle nostre parole d’ordine presso determinati settori operai e di ceto medio declassato – che oggi vedono nella Lega di Salvini una possibilità di protezione e la speranza di tornare ai precedenti livelli di ricchezza – senza passare dal lento, spesso invisibile e poco gratificante lavoro quotidiano fatto di presenza nei quartieri, di mutualismo, di radicamento in scuole e posti di lavoro.

Solo ricominciando a parlare, a comprendere i problemi che vive quel popolo di cosiddetti “analfabeti funzionali” che la sinistra spocchiosamente disprezza, e facendosi carico di una ricerca conflittuale e collettiva di soluzioni a questi problemi (tanto nelle microvertenze che attraverso un progetto politico generale e credibile) sarà possibile, almeno in parte, scomporre questo maledetto fronte reazionario che oggi ci troviamo davanti. La situazione non è per nulla buona, questo è chiaro, ma niente panico. Al lavoro invece.

 

Infine, uno sguardo all’Europa.

Estremamente variabile il dato dell’affluenza, dall’oltre 80 % di Belgio e Lussemburgo alle percentuali bassissime di Slovacchia, Repubblica Ceca, Slovenia, Bulgaria, Croazia e Portogallo  dove nemmeno un  elettore su tre è andato a votare. Segno anche questo di un attaccamento alle istituzioni europee altamente diseguale dentro lo spazio dell’Unione.

A colpo d’occhio, notiamo che la paventata “ondata nera” non si è verificata. Pur raggiungendo risultati notevoli in alcuni paesi e risultando in crescita un po’ ovunque, i tre gruppi parlamentari che raccolgono i partiti nazionalisti e cosiddetti euroscettici (ECR, “Conservatori e riformisti europei”; 63 seggi ENF, “Europa delle Nazioni e della libertà”, 58 seggi;  EFDD, “Europa della libertà e della democrazia diretta”, 54 seggi) occuperanno “soltanto” poco più di un quinto del nuovo Parlamento. Pur in netto calo, sia il Partito popolare europeo (178 seggi, -43 rispetto al 2014) che il gruppo dei Democratici e dei Socialisti (153 seggi, -38) si confermano invece primo e secondo partito, perdendo tuttavia la possibilità, sommati, di avere la maggioranza assoluta. Dietro di loro, da segnalare il boom del gruppo Liberale (105 seggi, +38) e quello Verde (69 seggi, +19), trainato dai successi a doppia cifra che ottiene in quasi tutti i paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Fanalino di coda la sinistra radicale (38 seggi, – 14), in netto calo.

Il tanto paventato scossone che queste elezioni dovevano dare all’architettura istituzionale europea probabilmente non ci sarà. Popolari, liberali e socialisti, messi insieme in una grande coalizione su scala europea hanno i numeri più che sufficienti per far continuare le politiche neoliberali (accelerando magari sul fronte green economy in risposta ai nuovi movimenti ecologisti apparsi in questi mesi), regressive sul piano dei diritti sociali ed escludenti verso chiunque tenti di raggiungere la Fortezza Europa. Tutto questo nel proseguimento della costruzione del polo imperialista europeo imperniato sull’asse franco-tedesco, con il resto degli Stati destinati al ruolo di periferia o semi-periferia. C’è davvero poco di cui esser contenti per un simile risultato.

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