L’Autonomia come metodo rivoluzionario. A proposito del libro “L’autonomia operaia vicentina”

Giovedì 23 Maggio la nostra redazione ha organizzato un interessante incontro con l’autore Donato Tagliapietra per presentare il suo libro “Gli autonomi. L’Autonomia operaia vicentina. Dalla rivolta di Valdagno alla repressione di Thiene – volume V”. Pubblichiamo un contributo alla discussione che questo libro ha mosso, sull’attualità del pensiero autonomo.

Se prendiamo il 1977 come anno simbolo del movimento autonomo l’osservatore disattento e politicamente depresso del 2019 si sentirà molto più lontano dei quarantadue anni che in teoria ci separano. In realtà c’è così tanto presente e futuro in quella storia che pare quasi assurdo pensare alle svariate generazioni nate, cresciute e invecchiate dopo la fine del lungo ’68.

Il libro di Donato Tagliapietra, militante dei Collettivi Politici Veneti, non è la solita autobiografia egocentrica, magari piacevole, sugli anni ’70, non è un romanzo autoassolutorio da rivoluzionario pentito, né un racconto autocelebrativo. È un affresco storico, puntuale, dipinto con i racconti dei protagonisti dell’epoca, con i documenti dell’organizzazione autonoma vicentina che si inserisce perfettamente come quinto volume nella collana “Gli Autonomi” di Derive Approdi.

Siamo lontani certo da quell’epoca, storie e lotte si sono susseguite in un paese che, per quanto ne dicano i politicanti, non sarà mai pacificato. Oggi però sembra quasi eretico parlare di rottura rivoluzionaria – come allora era perseguirla realmente – anche molti militanti che si riempiono la bocca di simili parole, si concedono giusto il tempo di un brindisi, una foto e la stampa di qualche maglietta per poi tornare nel cortile del concesso, del compatibile e sopratutto del pompieraggio dettato dalle esigenze di autotutela del proprio orto. Sicuramente è molto più semplice mettersi uno slogan addosso che praticare un percorso autonomo, sicuramente è meno pauroso e rassicurante riproporre il già proposto, perseguire lo sconfitto.

La paura di certo non faceva parte dell’orizzonte della generazione autonoma, quella generazione che di eccezionale ha fatto soprattutto una scelta, una scelta di campo, fuori da ogni sicurezza del già conosciuto, fuori da ogni logica di autoconservazione. La scelta da qui pare semplice, non continuare a vivere la vita imposta ai propri genitori, spesso partigiani che dopo la svolta democratica pcista furono obbligati ad essere pedine sacrificabili nel processo produttivo. Decisero di fare di questa indisponibilità e irriducibilità la loro forza e semmai di esser vettori di paura, ma per i padroni.

Certo si veniva da un quindicennio di lotte serrate, di avanzamenti, di conquiste, ma quella scelta fu operata in una vastissima crisi sociale ed economica. Crisi dei gruppi politici che non sapevano interpretare un paradigma produttivo in rapida trasformazione, crisi del sistema costretto a rigenerarsi e reinventarsi.

Dopo la crisi petrolifera, la crisi monetaria, e l’inasprimento delle lotte sociali, la fabbrica si trasforma, perde centralità, cambia la figura sociale disposta al conflitto, la produzione allarga le sue maglie, è tempo della fabbrica diffusa, dall’operaio massa all’operaio sociale.

Chi sta dentro questa analisi è la generazione dei giovanissimi diplomati subito costretti a lavorare nei vari minicentri produttivi, in questo contesto il rifiuto del lavoro è un comportamento dato, un fatto generazionale sostenuto dalla lotta e dalla solidarietà collettiva, mica il vezzo di qualche borghese. E se questi non si riconoscono nel processo produttivo, nella socialdemocrazia e nel PCI, quale è l’unica scelta possibile? Prendere il toro per le corna – in questo caso la crisi – e invece di continuare a ignorare le trasformazioni sociali, starci dentro. Significa prima di tutto scegliere di essere forza e scegliere di combattere, “dalle armi della critica alla critica delle armi” si dice nel libro, prima di qualsiasi armamentario, la scelta di forza è una sfida collettiva, misurata, sondata e ponderata. Non c’è analisi pessimistica che tenga, né soloni del ‘non è questa la fase’, la rivoluzione è qui e ora, è una scelta per loro naturale, è il coraggio di smettere di essere vittime che chiedono briciole, ma corpo collettivo che pretende.

Vuol dire anche rifiutare qualsiasi compromesso democratico, con la destra e soprattutto con la sinistra che di questo processo di ristrutturazione è un alfiere, basta vedere la pretesa sempre più pressante di CGIL e PCI di nuovi sacrifici, di rimandare il conflitto a data non pervenuta, di fare la pace sociale con la Democrazia Cristiana.

Di questa Autonomia, che rifiuta lavoro, compromessi e anche la non-violenza dei gruppi, la sinistra è il principale nemico, identica alla sinistra che oggi amministra la crisi con lacrime e sangue. Il PCI in particolare si sente defraudato, non sopporta la cocciutaggine di questi giovani ‘scansafatiche’ – che come nel 1960 a Piazza Statuto per la loro cronaca giornalistica diventano “provocatori” “criminali” “terroristi” – non sopporta di vedere il conflitto di classe debordare dai tavoli sindacali, non sopporta e non capisce cosa diavolo succede, perché non si accontentano, come hanno alla fine fatto le generazioni precedenti, delle briciole welfaristiche? Invece questa gioventù non si piega, nonostante tutti gli sforzi propagandistici che la classe dirigente mette in campo con un accanimento mai visto. La sinistra in particolare non tollera le vittime che diventano forza, che rifiutano la carità socialdemocratica, che pretendono autonomia, che non si sentono rappresentate né rappresentabili, che scelgono di esser irriducibilmente altro da ciò che è lecito nel recinto democratico.

Questo, aldilà delle declinazioni territoriali vincenti o non, è il metodo autonomo, è la prassi rivoluzionaria, la strategia che ci occorre, ecco la fondamentale centralità di libri simili: collocare la storia nel presente, dare indicazioni di campo, riproporre la sfida che quella generazione ha accettato.

E allora non c’era spazio per girotondi e marce della sfiga, per vertenze riformiste, o sindacalismo carrierista, è una lotta di contropotere. Si vede sopratutto in questo contesto provinciale e vicentino. A dispetto di tutte le analisi sulla metropoli è tra i paesini di Schio, Valdagno e Thiene, che si sviluppa un controllo del territorio capillare, una lotta che travalica la fabbrica, il sindacato e il partito (in questo caso erano egemoni CISL e DC). La comunità di paese si compatta nello scontro di classe, nell’attacco del nemico, che è ben diverso dal prepararsi ad essere manganellati (pratica inesistente allora) ma scegliere il tempo e i modi dello scontro, di porre la propria temporalità – autonoma – come prioritaria nello scontro del nemico-capitale.

Mica storia per anime belle, le migliaia di molotov colpiscono duro, tutelano la comunità certo ma sanzionano i padroni, il loro fuoco identifica il nemico, lo stana dai suoi covi, lo incastra e lo obbliga alla ritirata. La produzione ne risente, il padronato impazzisce e così come in mezza Italia prepara nuove contromisure, niente di nuovo: magistrati prezzolati, menzogne e sbarre del carcere per migliaia di militanti senza accuse specifiche, arrestati in attesa di processo.

Quella fase finisce, quella storia si chiude, la repressione fa il suo corso con il 7 Aprile 1979 e con la storicizzazione delle menzogne, ma se l’esperienza dei militanti che hanno scelto di attaccare il “cuore dello stato” finisce nel peggiore dei modi, il metodo dell’autonomia rimane vivo, come l’esigenza di comunismo. Parlare di autonomia vuol dire quindi parlare di presente e di futuro, di scelta di campo, di forza collettiva, di indisponibilità, di irriformabilità, di rifiuto della rappresentanza, ma sopratutto di un’eresia di una minoranza che non accantona mai la rottura rivoluzionaria, anche quando questa significa far a pezzi il vecchio scegliendo di far nascere il nuovo.

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