La trilogia del Comitato Invisibile al Borda!Fest 2019. Appunti per la discussione

Ripubblichiamo alcune note di Mattia Galeotti in vista della presentazione della trilogia del Comitato Invisibile del prossimo 1 novembre a Lucca, nell’ambito del Borda!Fest 2019. Pensieri per cominciare una discussione sulla fase che stiamo attraversando, sul nuovo ciclo di insurrezioni che sta prendendo piede in vari paesi del mondo, per elaborare una percezione comune della nostra epoca. 

La presentazione si terrà alle 19 nei sotterranei del Baluardo San Martino

 

“Presentazione della raccolta degli scritti del Comitato Invisibile

L’Insurrezione che Viene – Ai Nostri Amici – Adesso

Qualche appunto sparso per avvicinarsi alla presentazione del volume con il traduttore Marcello Tarì

 

Fare politica

Sin dalle prime righe dell’Insurrezione che viene, troviamo una sottolineatura che colpisce:

riferendosi alle rivolte nelle banlieue francesi del 2005:

 

Il grande merito di quella serie d’azioni notturne, attacchi anonimi e devastazioni senza mezzi termini, è di avere elevato al massimo grado la separazione tra la politica e il politico. Onestamente nessuno può negare il peso evidente di un simile assalto senza rivendicazioni e senza messaggi che non fossero di minaccia; un assalto che nulla aveva a che fare con la politica. Per non vedere quanto vi sia di puramente politico in una negazione così risoluta della politica bisogna essere ciechi o ignorare totalmente i movimenti autonomi giovanili degli ultimi trent’anni. Sono stati bruciati, da alcuni ragazzi allo sbaraglio, i primi ninnoli di una società che, al pari dei monumenti parigini dopo la «Settimana di sangue», non merita rispetto alcuno. E lo sa.

Non ci può essere soluzione sociale per uscire dalla situazione presente. Anzitutto perché quel vago aggregato di milieu, istituzioni e bolle individuali chiamato per antifrasi «società» è privo di consistenza, poi perché non c’è più un linguaggio per l’esperienza comune.”

[…]

Non c’è soluzione per i «problemi» formulati nel linguaggio sociale. Tutto resta in sospeso: «pensioni», «precarietà», i «giovani» e la loro «violenza», mentre si demanda alla polizia la gestione di passaggi all’atto sempre più imponenti, malcelati da tali «questioni».”

 

Quindi fin dai suoi primi passi, l’Insurrezione che viene prende di petto la questione della politica e dunque del linguaggio in cui si formula l’azione comune. È interessante perché fin da qui – ma anche seguendo il corpus delle opere, degli interventi, e dell’agire militante del “Comitato Invisibile” – si pone un elemento di affinità con l’Autonomia italiana e un elemento di divergenza.

L’affinità sta nella nuova individuazione dei soggetti di classe tramite i conflitti, rimettendo al centro le pratiche e le lotte, e non soltanto una lettura dell’organizzazione del lavoro (quella che nell’autonomia italiana è la griglia di lettura che accompagna la “composizione politica” alla “composizione tecnica”). La divergenza sta nel diverso modo di intendere il piano della rappresentazione: se per l’autonomia “organizzata” italiana, il simbolico è un terreno di scontro (il palazzo d’inverno da conquistare?) per il Comitato Invisibile il simbolico, i linguaggi, sono direttamente strumenti della soggettivazione, strumenti normativi da rompere, da rendere inoperativi.

 

Qui arriva quindi il riferimento alla “politica” che troviamo già nelle prime pagine del libro: la politica intesa come una serie di gesti codificati, di linguaggi prestabiliti, di maniere che permettono la legittimazione e il riconoscimento delle proprie rivendicazioni… la politica non è più una maniera di combattere, ma il nemico stesso.

 

Ambiente

Due aspetti su cui la cesura con il pensiero di Sinistra è particolarmente visibile. Il primo è la critica alla Scuola, in particolare a partire dalla situazione specifica francese. La crisi dell’istituzione scolastica non è vista come male da guarire, ma come passaggio necessario nell’incrinamento inevitabile dell’universalismo.

Il secondo è la questione ambientale. La postura particolare che troviamo nei libri prende in controtempo la riscossa ecologica che vuole “salvare il pianeta”, perché mette a critica la nozione di “pianeta” come referente universale.

 

Ammettiamolo: non ci tocca affatto tutta questa «catastrofe» dal cui clamore veniamo intrattenuti. Almeno non prima che ci colpisca con una delle sue prevedibili conseguenze. Ci riguarda, forse, ma non ci tocca. Ed è questa è la vera catastrofe.”

Non esiste una «catastrofe ambientale». Esiste quella catastrofe che è l’ambiente. L’ambiente è quel che resta all’uomo dopo aver perduto tutto il resto. Coloro che abitano un quartiere, una strada, una valle, una guerra, un’officina, non hanno un «ambiente», ma evolvono in un mondo popolato di presenze, pericoli, amici, nemici, punti di vita e punti di morte, di ogni sorta di esseri. Questo mondo ha la sua consistenza, che varia con l’intensità e la qualità dei legami che ci uniscono a tutti questi esseri e a tutti questi luoghi.”

Quel che si è cristallizzato in «ambiente naturale» è un rapporto al mondo fondato sulla gestione, cioè sull’estraneità. Un rapporto al mondo in base al quale non siamo fatti anche del fruscio degli alberi, dell’odore di frittura in cortile, dello scorrere dell’acqua, del vocio a scuola o dell’umidità di una serata estiva; un rapporto al mondo in cui ci siamo solo io e il mio ambiente, che mi circonda senza mai costituirmi. Siamo diventati come dei vicini in una riunione di condominio planetaria. Non si può immaginare inferno più compiuto. Nessun luogo materiale ha mai meritato il nome di «ambiente», fatta eccezione forse per la metropoli.”

Il fatto è che l’ambiente ha il merito incomparabile di essere – ci si dice – il primo problema globale che si sia posto all’umanità. Un problema globale, cioè un problema del quale solo coloro che sono organizzati a livello globale possono avere la soluzione. Sappiamo bene di chi si tratta: i gruppi che da un secolo sono all’avanguardia del disastro e contano di rimanervi, al prezzo irrisorio di un cambio di logo.”

Finché ci saranno l’Uomo e l’Ambiente, tra i due ci sarà la polizia. Tutto è da rovesciare nei discorsi ecologisti. Laddove parlano di «catastrofe» per indicare i dérapage dell’attuale regime di gestione degli esseri e delle cose, noi non vediamo altro che la catastrofe del suo perfetto funzionamento. La più grande ondata di carestia mai avvenuta nella zona tropicale (1876-1879) coincise con un periodo di siccità a livello mondiale, ma soprattutto con l’apogeo della colonizzazione. La distruzione dei mondi contadini e delle loro pratiche alimentari aveva fatto scomparire i mezzi per far fronte alla penuria. Più che la mancanza d’acqua, sono gli effetti dell’economia coloniale in piena espansione che hanno coperto di milioni di cadaveri scarnificati tutta la fascia tropicale. Ciò che viene presentato ovunque come catastrofe ecologica è sempre stato, in primo luogo, la manifestazione di un rapporto al mondo disastroso. Non abitare nulla ci rende vulnerabili al minimo scossone del sistema, al minimo imprevisto climatico. All’approssimarsi dell’ultimo tsunami, mentre i turisti continuavano a trastullarsi nell’acqua, i cacciatori-raccoglitori delle isole si affrettavano a fuggire dalle coste seguendo gli uccelli.”

 

Questa serie di spunti sull’ambiente possono aprire un dibattito che è assolutamente attuale: perché milioni di persone hanno capito l’urgenza della catastrofe ambientale? Cosa significa accettare la gravità della situazione? Il movimento “di Greta” sembra avere la potenzialità di individuare le cause sistemiche, di individuare dei nemici, ma quali sono i passaggi soggettivi che possono rendere duratura una concezione dell’ambiente non più oggettivata, non più separata dai mondi che lo abitano?

 

Ai nostri amici: le insurrezioni sono arrivate

Il secondo libro è una riflessione su un primo ciclo di rivolte, a partire dalla Grecia del 2008, passando per le primavere arabe, per il ciclo di indignados e occupy.

Le insurrezioni sono arrivate, ma non la rivoluzione.

 

A questo punto, dobbiamo ammetterlo, noialtri rivoluzionari siamo stati sconfitti. Non perché dal 2008 in poi non abbiamo avuto come obiettivo la rivoluzione ma perché ci siamo allontanati, di continuo, dalla rivoluzione come processo. Quando si fallisce ce la si può prendere col mondo intero, elaborare ogni sorta di spiegazione a partire da mille risentimenti, persino da spiegazioni scientifiche, oppure ci si può interrogare sui punti d’appoggio di cui il nemico dispone in noi stessi e che determinano il carattere non fortuito ma ricorrente dei nostri fallimenti. Potremmo magari interrogarci su quanto resta, ad esempio, di sinistra nei rivoluzionari, qualcosa che li espone non solo alla sconfitta ma a un odio quasi generale. Una certa maniera di professare un’egemonia morale di cui non possiedono i mezzi è un difetto dei rivoluzionari ereditato dalla sinistra. Come anche l’insostenibile pretesa di dettare la giusta maniera di vivere – quella veramente progressista, illuminata, moderna, corretta, decostruita, non-inquinata.”

 

Quello che ci manca, sostiene il libro, è un’idea di vittoria. Una vittoria non come momento, non come obbiettivo puntuale da raggiungere, ma come processo. Ci manca un’idea di convivenza vittoriosa, in cui il processo rivoluzionario è in fieri e continua a prodursi. I nostri paradigmi politici continuano a ruotare attorno a un’idea di “presa”, di posta in palio definitiva… ma c’è un’idea di vittoria che forse può porsi nei termini dell’ “essere in movimento”, o del “divenire rivoluzionari” come condizione anche etica.

In questo sorge la domanda: siamo entrati (tra 2018 e 2019) in un ciclo diverso? I meccanismi rappresentativi hanno ceduto? I gilet gialli hanno l’enorme pregio di darsi l’irrapresentabilità come cardine, come condizione di esistenza. La debolezza della sinistra istituzionale francese sembra essere una condizione di forza dei gilet, perché impedisce al processo di chiudersi, di darsi un piano simbolico definito. È così? Assistiamo a movimenti anti-populisti perché incapaci di essere rappresentati populisticamente?

Hong Kong, Catalogna, Ecuador, Cile: tutte situazioni in cui la mobilitazione sembra debordare le condizioni di significazione istituzionale.

 

Da Maintenant ai gilet gialli

L’ultimo libro parte dalle mobilitazioni che hanno attraversato la Francia nel 2016.

La novità del movimento del 2016 è appunto l’eccedenza rispetto ai piani rivendicativi. È qualcosa che era palpabile nel cortège de tete ma anche nelle piazze occupate di Nuit Debout: il cortège de tete è uno spezzone autonomo che si metteva in testa ai cortei sindacali, diventando uno spazio d’azione senza simboli; le piazze occupate richiamavano la simbologia e le pratiche delle piazze “indignate”, ma la dinamica assembleare sembrava superata e rimpiazzata da una comune tensione a confidarsi. Non c’è mai stata la possibilità che queste piazze diventassero “la voce” del movimento, i suoi organi decisionali. Sono invece state delle sedute terapeutiche di massa, a volte persino grottesche, sicuramente indicative di qualcosa… della fine della “politica” di cui dicevamo all’inizio?

 

I gilet gialli in questa situazione si inseriscono come un’esplosione inattesa, un risvolto impensabile. I gilet gialli sono i “primi degli esclusi”, una classe media proletarizzata che parte dalla sensazione di espulsione dalla cittadinanza, e approfondisce la crisi della “democrazia”, portandola a svelare il suo volto fascista. La risposta di Macron si è data nella coppia partecipazione-repressione: moltiplicazione dei momenti di politica cittadina incanalata nei modi, nei tempi e nei temi della “partecipazione”; contemporaneamente una guerra alla popolazione dura, in cui sono state stravolte le dottrine poliziesche che regolavano le regole dello scontro da 30 anni. Questa coppia di risposte sono probabilmente da intendersi come direzione forte delle politiche governamentali dei prossimi anni.

 

Dei gilet gialli non è tanto l’uso della violenza insorgente che colpisce, perché quello è un tratto ricorrente della storia francese; colpisce che il nemico sia individuato nella politica, nella polizia, colpisce che questo movimento non possa essere contenuto in una dinamica rappresentativa: aggirati i sindacati, aggirati i corpi intermedi. Il giletgiallismo è sicuramente rimasto irrappresentabile, e si è prodotto un divenire-politico di tanti aspetti della vita: occupazioni di case del popolo, nuovi cicli di lotte e scioperi con nuove caratteristiche, odio diffuso per la polizia, nuove possibilità di alleanze tra francia bianca e discendenti dell’immigrazione che subiscono il razzismo, ecc.

 

Qual è l’idea di vittoria che questa nuova condizione ci suggerisce? Se è assurdo aspettarsi un ripetersi dei gilet gialli, cosa possiamo invece attenderci? In che epoca stiamo entrando?

 

Mattia Galeotti

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