Alcuni terreni di scontro per i prossimi mesi
La grande crisi che alcuni da tempo paventavano, è finalmente arrivata. The Next Big One, il Cigno Nero o, come è nota ai più, Covid-19. Nel giro di pochissime settimane, un virus passato per zoonosi dall’animale all’uomo nella zona di Wuhan, in Cina, ha messo in ginocchio l’intero globo. Ospedali al collasso, economia reale a picco, montagne russe sui mercati finanziari, ritorno di forza dell’intervento statale nell’economia. Davvero, ci sono settimane che valgono anni.
Come tanti, anche noi ci siamo sentiti colti alla sprovvista e privi degli strumenti per decifrare appieno la fase in cui siamo entrati e le possibili evoluzioni che potrà prendere. Tanto è vero che ci troviamo a proporre un nostro editoriale a quasi due mesi di distanza dallo scoppio dell’epidemia. È dunque in piena umiltà e con voglia di discutere (con l’obiettivo di poterlo fare fisicamente quanto prima), che buttiamo giù queste righe. Non tenteremo un’analisi generale che è fuori dalla nostra portata, ci limitiamo a delineare alcuni punti che ci paiono importanti. Importanti per cosa? Per identificare un nuovo “noi”. Il tipo di mondo che vogliamo abitare. E i nemici che dovremo combattere per conquistarcelo.
“La vera sicurezza è la salute!”
Decenni di tagli e privatizzazioni della sanità (37 miliardi in meno negli ultimi dieci anni secondo alcune stime) ci hanno regalato l’assai poco invidiabile primato del paese con la più alta letalità da Coronavirus. Che la Caporetto del nostro sistema sanitario sia avvenuto nella regione più ricca del paese, la Lombardia, dà l’idea dell’esposizione e del grado di impreparazione (unito a una serie di scelte scelerate da parte dei nostri governanti) che ha determinato decine di migliaia di morti altrimenti evitabili.
Dopo questo choc, di cui ad ora non è possibile immaginare la fine, è possibile dunque che il diritto alla salute torni ad essere un terreno di mobilitazione popolare importante. Più ospedali, più posti letto, più macchinari. Più personale, e meglio pagato. Agitare con forza queste rivendicazioni, chiedere conto ai responsabili politici della condizione in cui versa la sanità pubblica nel nostro paese, saldando le esigenze dei cittadini a quelle del personale sanitario mobilitato per l’emergenza, è un compito che dobbiamo assolutamente far nostro. “La vera sicurezza è la salute!”: uno slogan da collettivizzare il più possibile.
Il protagonismo operaio contro il vampiro Confindustria
La decisione di non alzare alcuna zona rossa nella provincia di Bergamo e di non stoppare immediatamente tutte le attività produttive non essenziali, è stata la vera causa della strage che ha investito il Nord Italia. L’arroganza padronale, ben espressa dai volgari (per non dire vomitevoli) spot di un Urbano Cairo sul fatturato da far crescere a spregio di tutto il resto, si è finalmente manifestata con chiarezza a milioni di lavoratori e lavoratrici. Un’ondata di scioperi spontanei e diffusi che ha messo con le spalle al muro gli stessi sindacati confederali (come è noto pompieri di professione) ha costretto inoltre il governo a fare i conti con quelle masse operaie che anche nel XXI secolo hanno il potere di far andare avanti o di bloccare un paese.
Il decreto del 22 marzo ha segnato da questo punto di vista una sconfitta, solo una parvenza di chiusura delle attività industriali non essenziali. Decine di migliaia di variazioni sospette del codice Ateco per continuare a produrre in deroga al decreto richieste dalle aziende alle prefetture, in assenza di qualunque controllo sul rispetto delle norme di sicurezza da parte delle Asl o delle forze dell’ordine, danno la misura del privilegio e del disprezzo della salute dei lavoratori da parte della nostra classe imprenditoriale. Ce ne ricorderemo, e così faranno anche quelle centinaia di migliaia di operai che sono stati mandati al macello, ammalandosi e facendo ammalare le loro famiglie.
Pur registrando una sconfitta, dicevamo, la pressione operaia di marzo, la forza dimostrata in quei giorni, deve tradursi in organizzazione della resistenza a fronte dell’ondata di licenziamenti e sacrifici che verosimilmente ci chiederanno nei prossimi mesi. Questo è il momento, per tutti e tutte, di stringere legami, dentro i luoghi di lavoro e con tutti i presidi solidali che possono esserci fuori, di prepararsi allo scontro.
Nuove frontiere dello sfruttamento. Sui rischi dell’innovazione digitale
Il parziale lockdown determinato dalla chiusura di scuole, università e di un’altra serie di imprese e servizi ha impresso una profonda accelerazione alla sperimentazione su vasta scala di forme di telelavoro. Il mondo dell’istruzione rappresenta l’ambito più importante ed esteso di questo enorme esperimento, anche se non l’unico. Le crisi sono da sempre occasioni di innovazione per il capitale, innovazione delle forme di sfruttamento in primo luogo. La retorica dell’autoimprenditorialità culminata nella schiavitù digitale dei riders, dovrebbe averci istruito a sufficienza in proposito. Ovvio che nella fase acuta dell’emergenza è sicuramente meglio lavorare da casa che recarsi in luoghi affollati e a rischio contagio, ma è bene aver presente che le innovazioni sono fatte per restare.
Non sono pochi infatti i fattori seduttivi del cosiddetto smart working: flessibilità nell’orario, annullamento dei tempi e delle spese necessarie per recarsi sul luogo di lavoro, nonché dell’inquinamento connesso ai mezzi di trasporto. Ma questi stessi fattori sono legati a doppio filo con i loro rovesci negativi: indistinzione tra il tempo di vita e quello di lavoro, con ulteriore sopravvento del secondo sul primo; atomizzazione dei lavoratori; sorveglianza digitale. È lecito pensare che sarà questa una delle nuove frontiere su cui il capitale tenterà di ricostruire margini di profitto. Decisivo sarà in questo senso il potenziamento della connettività alla rete internet con ulteriore accelerazione nel varo del 5G (argomento che merita più di un’analisi critica dal punto di vista della salute e del controllo sociale, fuori da qualunque delirio complottista).
Maturare un punto di vista di parte che sia critico rispetto a questi processi e alle loro possibili derive, è dunque assolutamente necessario. Fin da subito. Non abbiamo certo nostalgia di quello che c’era prima, ma non può essere questa la nuova normalità.
Ambiente
La crisi ecologica è forse il grande tema che più è stato oscurato dal diffondersi dell’epidemia. Eppure, non mancano gli studi che dimostrano come la nostra economia predatoria, gli allevamenti intensivi, il turbamento degli ecosistemi dovuto a un antropizzazione selvaggia, siano tutti elementi che favoriscono il diffondersi di epidemie e la comparsa di nuovi virus capaci di passare dagli animali all’uomo. Non è poi difficile indovinare in che condizioni si trovassero i polmoni degli abitanti di Wuhan o della pianura padana già prima del virus, in conseguenza degli altissimi tassi di inquinamento atmosferico che avvolge ordinariamente queste regioni.
Le immagini idilliche di queste settimane, con cieli e acque finalmente limpidi, non sono però destinate a durare, su questo è bene non farsi illusioni. Al contrario, l’ambiente sarà ancora una volta sacrificato alla necessità di far ripartire l’economia e contenere i tassi di disoccupazione a doppia cifra con cui dovremo fare i conti. Massicce dosi di finanziamenti statali per costruire grandi opere inutili devastando l’ambiente, deroghe al rispetto dei parametri ambientali per non far fallire alcune industrie, e per finire l’ulteriore potenziamento del settore della logistica e delle consegne a domicilio, saranno il rovescio persistente della facciata ecologica costituita dalla green economy e dallo smart working.
Smascherare gli inganni di questa presunta svolta epocale, difendere i territori tramite l’autorganizzazione delle comunità locali, pretendere investimenti sensati e realmente necessari per la manutenzione e la messa in sicurezza delle infrastrutture sarà anch’esso uno dei fronti principali su cui sarà necessario combattere. Affinché un ritorno a un interventismo statale nell’economia di stampo keynesiano (del tutto possibile nel breve-medio periodo, meno sul lungo) non ci faccia dimenticare che non c’è via d’uscita dalla crisi ambientale senza una contemporanea fuoriuscita dal capitalismo.
Diritto alla casa, diritto a un abitare degno
La natura classista dello slogan “Io resto a casa”, non poteva risultare più evidente di fronte alla constatazione che decine di migliaia di persone nel nostro paese una casa non ce l’hanno. Chi vive in strada, o in ripari di fortuna, o si appoggia alle strutture dell’associazionismo caritatevole per avere dove dormire e di che mangiare, è doppiamente esposto ai rischi della malattia, perché tagliato fuori dal circuito della medicina territoriale. Grazie anche all’infame articolo 5 del decreto Lupi (2014, governo Renzi), viene infatti negato a chi vive in alloggi occupati di ottenere la residenza, con tutto ciò che a questa si accompagna, tra cui l’assegnazione di un medico di base.
Milioni di persone che si trovano invece in affitto, senza stipendio e senza reddito, si candidano a scivolare nel girone della morosità e dell’indebitamento, oppure a stringere la cinghia per far quadrare i conti a fronte di affitti rimasti ai livelli (già alti) pre-epidemia. Che venga fatto in forma organizzata sotto forma di sciopero dell’affitto, o nella forma spontanea dell’autoriduzione o del non pagare proprio il canone per manifesta mancanza di liquidità, si tratta di qualcosa che non può che espandersi e raggiungere nuove dimensioni nei prossimi mesi col procedere della crisi economica. Il governo ha finora disposto la sospensione degli sfratti fino al 30 giugno, termine temporale del tutto prematuro e inadeguato, che rimanda semplicemente poco più in là l’esplodere di un problema sociale che sarà arduo gestire.
Comitati di quartiere contro gli sfratti, sportelli per il diritto alla casa, sono strumenti di cui sempre più ci sarà bisogno per creare solidarietà, legami, sicurezze collettive, laddove rischiano invece di prendere piede disperazione, solitudine, autodistruzione. L’isolamento forzato potrebbe anche generare un bisogno di relazioni inedito, su cui costruire un nuovo senso dello stare insieme e dell’abitare. Laddove gli spazi privati sono stretti, malconci, insicuri, luogo dove si scaricano ansie e violenze (tra cui quella di genere, che il lockdown non ha fatto altro che aggravare), il bisogno di trovare comunità può essere più forte. Qui occorre che ognuno faccia la propria parte. Casse di solidarietà e forme di mutualismo sono un primo strumento utile per farsi riconoscere, occorre riflettere su come rendere questi strumenti di solidarietà sociale dei trampolini per produrre attivazione politica e nuove forme di conflitto.
“Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”.
Molte altre questioni necessiterebbero di analisi e di riflessione (dalla questione migratoria, al tema del reddito e dei buoni spesa, ai pericolo derivanti dal diffondersi del controllo sociale e di una cultura delatoria, all’aumento del lavoro caricato soprattutto su delle spalle femminili), ma per ora ci fermiamo qui. Il punto però che le riassume tutte, è che da questa crisi non si torna indietro. Occorre tradurre questo dato di fatto nella necessità di compiere delle scelte, personali e collettive. Decidere se vogliamo davvero provare a deporre il mondo che ci ha portato a tutto questo, o se invece desideriamo tornare ad amministrare le nostre esistenze di prima. Noi che nel nostro piccolo, e con tutta l’umiltà necessaria, vogliamo intraprendere la prima strada, cerchiamo amici e compagni di viaggio che vogliano accompagnarsi a noi. Cominciando col lavoro su questi punti.