Da dove viene l’emergenza sanitaria

È inutile fare giri di parole: l’emergenza Covid-19 ha colto il nostro paese impreparato. La sottovalutazione dell’epidemia da una parte e le carenze strutturali del nostro sistema sanitario dall’altra, oltre che altri fattori di cui sarà parlato ampiamente in altri editoriali che sono usciti o usciranno su questo sito, hanno creato un terreno fertile per il dilagare del contagio, specie in alcune zone del paese. Appare però difficile anche solo approcciarsi a parlare della questione sanitaria italiana, viste le – a volte abissali – differenze tra le singole gestioni regionali e i continui tagli (salvo poi retromarce clamorose in queste ultime settimane) che hanno falcidiato questo settore, stravolgendolo di volta in volta. Ed appunto da questo aspetto, ovvero il progressivo smantellamento della sanità pubblica in favore del privato, si potrebbe iniziare a parlare per tracciare almeno le prime linee del discorso.
Il primo passo ci fu col governo Amato I nell’ormai lontano 1992, che mettendo sullo stesso piano pubblico e privato obbligò di fatto il servizio pubblico a ragionare appunto non più nell’ottica di erogare un servizio ma in quella di competere con un concorrente – il privato – che partiva già avvantaggiato. Quest’aziendalizzazione di un servizio, di per sé scellerata, fu accompagnata negli anni successivi da continue riduzioni della spesa sanitaria: non ci fu governo che non andò, in un modo o nell’altro, a tagliare fondi od ostacolare in qualche altro modo la rincorsa del pubblico dietro il privato dapprima velatamente e poi, dopo la crisi economica del 2008, sempre più apertamente. In questa equazione entrano anche le misure di austerity volute dal governo europeo, che chiede maggiori tagli, svendite e privatizzazioni: se è vero che nell’ultimo decennio l’investimento nel settore sanitario ha avuto un flebile aumento dello 0,9%, esso è un dato molto relativo, falsato dall’aumento dell’inflazione che ha superato l’1% e ci suggerisce quindi tutt’altro scenario. Per rinfrescare un po’ la memoria recente, il governo Monti nella finanziaria 2012 e 2013 ha sottratto 8 miliardi alla spesa sanitaria, il successore targato PD Letta taglia 8,4 miliardi, Renzi ben 16,6 e Gentiloni 3,3. Dopo la carrellata dei governi di Sinistra è il momento della Destra di succedersi al potere ma la musica non cambia: anche qui si taglia, “appena” 0,6 miliardi, forse perché ormai si è arrivati davvero all’osso.

 

 

Nel dicembre 2019 si iniziano a registrare al nord i primi casi di polmoniti sospette mentre nel bel paese, contando anche il privato, ci sono appena 8,58 posti letto in terapia intensiva per 100.000 abitanti, di cui poco meno della metà occupati: l’arrivo del virus colpisce come uno tsunami un sistema sanitario ormai ridotto al lumicino da decenni di tagli sistematici: non ci sono posti letto, non ci sono macchinari o materiale, non c’è personale. Il governo Conte prova a mettere pezze dovunque, ma sta cercando forsennatamente di risolvere un problema di cui in parte è causa e che è stato accumulato in tempi molto più lunghi: a causa dei tagli al personale i medici e gli infermieri devono sostenere turni massacranti, a volte senza nemmeno le debite protezioni. Anche di fronte al baratro del virus il governo non pensa minimamente a concedere un posto fisso alle decine di infermieri assunti in fretta e furia: la “ricompensa” per la loro abnegazione è l’aver potuto lavorare nelle settimane della pandemia, bisogna godersela finché dura. Vengono effettuati pochi tamponi e i letti scarseggiano, i medici sono costretti a decidere chi intubare e chi no e continuare a lavorare anche dopo aver contratto il Covid. Caso esemplare la vicina Viareggio dove gli operatori sanitari, con pochi DPI e in continuo spostamento tra le varie strutture, sono quelli che registrano di gran lunga più contagi nella Usl Toscana Nord-Ovest. Per chi cerca di ribellarsi, qualsiasi sia la mansione o il grado, c’è il licenziamento o la sospensione: questo è segno di un sistema attento più a celare una debolezza ormai sotto gli occhi di tutti che a svolgere le sue funzioni. Si cerca di correre ai ripari con strutture temporanee, messe su in fretta e furia, o lasciando a casa più contagiati possibile alzando l’asticella dei requisiti del ricovero, col rischio magari di veder degenerare in quelle persone la malattia senza personale qualificato in grado di intervenire tempestivamente.

A questo quadro generale si va ad aggiungere una variabilità regionale, dovuta al fatto che dagli anni ’90 la sanità non è più gestita a livello nazionale ma regionale. Coi decreti del 1992-1993 e con la riforma Bindi del ’99 infatti si va verso l’aziendalizzazione del SSN: nascono le ASL, che garantiscono a livello territoriale i livelli assistenziali minimi e nel 2001 c’è la riforma del titolo V della Costituzione, che scarica sulle regioni l’onere dell’assistenza sanitaria e ospedaliera. Questo porta di fatto a un grosso divario tra le regioni più povere e quelle più ricche, o più semplicemente tra le regioni che investono di più o di meno. Esempio emblematico è la regione Lombardia, vero e proprio “ground zero” dell’epidemia in Italia con oltre 10.000 morti. Nel corso degli anni l’amministrazione regionale ha continuato a sfiancare la sanità pubblica in favore di quella privata con tagli, trasferimento di personale ed equipaggiamenti e una volta trovatosi a fronteggiare il Covid, ha da una parte cercato di minimizzare e ignorare il problema tardando a istituire una zona rossa, dall’altra ha mandato allo sbaraglio centinaia di medici e operatori sanitari sprovvisti persino dei DPI, ha dirottato parte degli infetti dagli ospedali ormai sovrassaturi alle RSA con conseguenze disastrose e per ultimo ha letteralmente tirato uno schiaffo ai cittadini lombardi pubblicizzando in pompa magna il modello sanitario lombardo come modello di efficenza e inaugurando un’ennesima grande struttura inutile ovvero l’ospedale allestito nei padiglioni del Polo Fiere, costato 21 milioni ma dall’utilità discutibile.

La situazione toscana è migliore, ma non per questo esente da grosse problematiche: se oggi Rossi tuona sulla necessità di maggiori assunzioni di personale sanitario e prova a placare i malumori con un contentino di massimo 40€ in busta paga per i sanitari in prima linea, nel non troppo lontano 4 marzo 2015 su La Nazione diceva che “primari e infermieri” erano “troppi” e che voleva “risparmiare 100 milioni”, mentre nel maggio 2019 la sanità toscana rischiava commissariamento da parte del governo Conte a meno di tirar fuori 160 milioni per il ministero dell’Economia per recuperare le perdite. A livello cittadino, l’elefante nella stanza è sicuramente l’ospedale San Luca, sorto a rimpiazzare il vecchio Campo di Marte (anche se tutto questo bisogno in realtà non c’era) e dimostratosi subito carente in molti aspetti: ad esempio se la legge regionale impone 3,15 posti letto per 1000 abitanti, il San Luca e le cliniche con esso convenzionate ne portano sul tavolo a malapena 2,35 e non ci sono letti per la riabilitazione in fase post-acuta se non in strutture private e a pagamento. Inoltre per la sua realizzazione a fronte degli 84,7 milioni previsti si è in pratica raddoppiato a 160, con concessione dei servizi non-sanitari al privato per 19 anni. Chissà in che situazione ci saremmo trovati se tutti quei soldi fossero stati investiti dove davvero servivano.

 

 

Altro aspetto da noi già trattato con un’inchiesta apparsa sul nostro sito nei giorni scorsi è quello delle residenze sanitarie assistenziali. Eloquenti rispetto alla problematicità di queste strutture sono, rimanendo sempre a livello locale, il massiccio numero di contagi che si sono registrati in alcune strutture garfagnine e versiliesi: ci troviamo ancora una volta di fronte a un settore, l’assistenza agli anziani malati, che ha subito decenni di tagli, privatizzazioni e speculazioni. Per portare l’esempio della nostra regione, la maggior parte delle strutture sono in realtà private (anche se convenzionate) e anche tra le pubbliche in alcune i lavoratori provengono da cooperative private. Ancora una volta il copione è lo stesso: l’attenzione è ai profitti più che al benessere e alla sicurezza degli ospiti. All’arrivo del virus, nonostante il particolare rischio di complicazioni e decessi che le fasce più anziane corrono, molte strutture sono lente ad adattare misure di contenimento. I DPI vengono forniti in ritardo o proprio mai e il personale è a volte mal istruito nel loro utilizzo e nelle misure da adottare per fermare l’avanzata del contagio: a volte si intima addirittura di continuare a lavorare nonostante i sintomi. Questo porta a un visibile peggioramento delle condizioni di lavoro degli operatori sanitari, già malpagati e costretti a turni massacranti, divisi tra varie strutture, incapacitati a svolgere bene il proprio lavoro visto la penuria di personale e ora costretti a rischiare il contagio o col peso sulla coscienza di essere il potenziale vettore di una malattia pericolosa per i propri assistiti. I tamponi sono pochi e vengono fatti soltanto in presenza di casi conclamati, salvo poi essere estesi a tutti, ricoverati e personale, quando i casi iniziano ad aumentare vertiginosamente. In alcune strutture si ha difficoltà a isolare i pazienti infetti, per mancanza di camere singole: si tratta verosimilmente di RSA nate come strutture di diversa natura, riconvertite per consentire ancora guadagni laddove la loro funzione originale non era andata a buon fine. Questo quadro disastroso porta a più di 100 morti conclamati ed un numero stimato ben più alto visto lo screening insufficiente nelle prime settimane di pandemia: in pratica grossomodo un terzo dei contagi avvenuti nella nostra regione è avvenuto in una RSA. Riguardo alla situazione non sono tardate ad arrivare le inaccettabili giustificazioni dell’assessora Saccardi, che cerca di smarcarsi dalle accuse facendo sapere che la sanità toscana non può dare direttive nelle RSA private a meno che non ci siano contagi appurati. Più che una giustificazione questa però sembra un’ammissione di colpa: l’affidamento di strutture dal ruolo così delicato ad un privato lascia di fatto una tra le fasce più vulnerabili della popolazione nelle grinfie di chi pensa spesso soltanto al lucro.

Questa pandemia ha dato anche a chi non ne era molto convinto un’importante lezione: aziendalizzare e privatizzare il servizio pubblico non lo rende più efficiente, se non nel massimizzare i guadagni di pochi alle spalle della collettività. Non potremo pensare in futuro di continuare a farci abbindolare dal mantra liberale per cui il privato è meglio e bisogna sempre mantenere la barca in pari: quando si tratta della salute della popolazione lo scopo non è il guadagno né non avere perdite di bilancio, se questo avviene a discapito di tutto il resto. Questo dogma non ha funzionato con il SSN così come non ha funzionato per mille altri servizi e settori: per chi ha la memoria corta invitiamo a leggere la nostra inchiesta su come la gestione scellerata del privato della rete stradale nazionale ha causato una vera e propria strage. La difesa dei beni comuni dunque, come anche dei diritti (specie il diritto alla casa, al reddito, ad un lavoro sicuro in tutti i sensi) rappresenterà senz’altro uno dei principali terreni di scontro dei prossimi mesi e anni. Se finora la nostra controparte è stata molto abile nel ridirezionare qualsiasi malumore verso falsi bersagli, disperdendo e fiaccando qualsiasi volontà di assalto verticale ai veri responsabili, la particolare situazione che stiamo attraversando ha forzato certe dinamiche e mostrato molti nervi scoperti del sistema. Sta a noi indicarli e prepararci a presentare il conto a chi per troppo tempo ha potuto ammassare ricchezze indisturbato alle nostre spalle.

 

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