Black Lives Matter, dagli Usa all’Italia

Uno sguardo agli Stati Uniti…

 

La scioccante esecuzione di George Floyd, tanto più scioccante in quanto avvenuta sulla pubblica piazza, in un’atmosfera di ordinario abuso poliziesco verso la popolazione nera, ha scatenato in decine di città USA un movimento di rivolta di carattere insurrezionale. Per profondità, diffusione e radicalità, siamo ben oltre i riots del 2014-15 da cui pure nasce il movimento Black Lives Matter. Commissariati di polizia dati alle fiamme; la Casa Bianca assediata dai manifestanti con Trump costretto a rifugiarsi nel bunker; la capacità di imporre, in virtù della forza esercitata da un movimento reale, un’agenda di rivendicazioni radicali (come lo scioglimento della polizia); la creazione di alcune Zone Autonome sottratte al controllo statuale a Seattle e in altre città sono tutti elementi – e molti altri ancora se ne potrebbero citare – che ci danno un’idea adeguata dell’entità e della potenza del sommovimento avvenuto.

Occorre avere ben presente che, quando parliamo della società statunitense, siamo di fronte a una realtà segnata da un razzismo strutturale, dal carattere di classe, di cui la brutalità poliziesca rappresenta solo un aspetto, per quanto particolarmente opprimente e violento. Se è vero che l’epidemia da Covid-19 ha messo a nudo tante delle violenze e delle disparità nascoste su cui si regge la normalità delle società democratico-liberali (alla faccia dei reiterati “andrà tutto bene” e “siamo tutti sulla stessa barca”), a maggior ragione ciò risulta eclatante negli Usa, primo paese al mondo per contagi dove il tasso di mortalità al virus fra gli afro-americani è nettamente superiore quello che si verifica tra i cittadini bianchi. Determinanti, da questo punto di vista, sono stati l’impossibilità di ricorrere alle cure di una sanità in larghissima parte a pagamento, e la maggiore esposizione al contagio sul luogo di lavoro in conseguenza di tassi maggiori di impiego in settori lavorativi che per loro natura non possono svolgersi in modalità online.

Non solo, si pensi ancora alla composizione della popolazione carceraria negli USA (che anche in questo caso, con 2,3 milioni di detenuti, quasi l’1% della popolazione, detengono il primato mondiale, con un incremento continuo negli ultimi 50 anni): la presenza di afro-americani nelle carceri statunitensi è cinque volte superiore a quella dei bianchi, e fino a dieci volte in alcuni Stati. Parliamo di un numero che ha la sua ragion d’essere non certo in una qualche predilezione genetica per il crimine da parte dei neri, ma in motivazioni molto più concrete e materiali. Primo obiettivo dell’incarcerazione di massa è criminalizzare e controllare le masse: chi ha passato del tempo in carcere può perdere il diritto di voto, di partecipare a una giuria e può essere discriminato sul lavoro o per l’accesso ai benefici pubblici, anche se si fosse macchiato di crimini lievi.

In effetti tra gli antesignani della polizia statunitense ci sono le slave patrols, vere e proprie ronde nate negli stati schiavisti con lo scopo di controllare e intimidire le comunità di schiavi, oltre che riacciuffare fuggitivi. E proprio un’altra eco del vecchio regime schiavista è presente nel sistema penitenziario a stelle e strisce nella forma del lavoro senza né paga né diritti minimi che i detenuti devono svolgere: si calcola che questa forza lavoro praticamente gratuita sia oggi, contando solo i prigionieri di colore più numerosa degli schiavi nel 1850! A fronte di una spesa statale altissima, prigioni pubbliche e private facciano miliardi di dollari. Ai prigionieri è affidata tutta la produzione di equipaggiamenti militari e fette ragguardevoli della produzione di pennelli e vernici, cuffie e altoparlanti e fornelli.

Tra le aziende che più si arricchiscono con questo sistema ci sono catene di fast food come McDonald’s e Wendy’s, i supermercati Walmart, Starbucks, compagnie telefoniche come Verizon e Sprint e pare che il secreto di Victoria’s Secret sia usare detenute per cucire i prodotti e cambiare cartellini. Questa è una trappola a cui è più difficile sfuggire per un afroamericano piuttosto che per un bianco, viste le condizioni sociali e abitative mediamente assai peggiori che creano un terreno favorevole per atti di microcriminalità e l’impossibilità di pagare una cauzione di parecchie migliaia dollari da parte di tanti detenuti in attesa di processo, stante la loro estrazione sociale mediamente più povera. 

Il numero dei morti per mano della polizia è se possibile anche più impressionante: dal 2013 al 2019, secondo una ricerca del gruppo Mapping Police Violence negli Usa 7.663 persone, ovvero in media 1.100 l’anno, 3 al giorno, sono state uccise dalla polizia. Fra queste, gli afroamericani sono circa il 24 %, malgrado rappresentino solo il 13 % della popolazione, ovvero essi hanno più del doppio delle probabilità di essere uccisi da agenti in divisa. Fatto ancor più grave, e che deve essere meditato a fondo se si vuol comprendere l’intensità della rivolta scoppiata a Minneapolis e poi allargatasi a tutti gli Usa, è che nel 99 % dei casi gli assassini sono stati assolti, o nemmeno sottoposti a processo. 

In un quadro del genere, la deflagrante esplosione del conflitto razziale e di classe negli Stati Uniti, segnato da una inedita capacità offensiva sul piano dello scontro di piazza, ha già conseguito tre risultati considerevoli.

In primo luogo, quella a cui stiamo assistendo non è solo una rivolta nera. Pezzi consistenti di popolazione bianca, ben più ampi del bacino sociale della sinistra radicale statunitense, si sono uniti alle rivolte e ai processi di autorganizzazione della vita comunitaria che le rendono possibili, che danno loro consistenza oltre lo spazio della battaglia in senso stretta. In una società che si regge e si riproduce grazie a disuguaglianze strutturali, la deposizione del proprio privilegio può avvenire solo nel momento in cui si è disposti a sostenere la destituzione radicale delle istituzioni fondanti di quella società, come la polizia. 

Come seconda cosa, va per l’ennesima volta in crisi un assunto che però è duro a morire alle nostre latitudini: che consenso alla lotta e conflitto radicale siano tra loro inversamente proporzionali. Le rivolte statunitensi, come quelle dei gilet gialli in Francia prima, ci dimostrano invece l’esatto contrario: il goffo tentativo di Trump di criminalizzare le rivolte derubricandole a una manovra politica di stampo terroristico da parte degli “Antifa” (bianchi) è stata un vero buco nell’acqua. Diversi sondaggi promossi da alcuni dei maggiori quotidiani Usa ci raccontano di un consenso largo circa le ragioni di questa rivolta, un consenso largamente maggioritario anche nella popolazione bianca e trasversale anche rispetto all’elettorato dei due maggiori schieramenti politici.

Per terzo, la rivolta di Minneapolis ha spostato più in là l’asticella del possibile e dell’immaginabile. Se il definanziamento della polizia, la cacciata di singoli agenti o capi di dipartimento smaccatamente razzisti e resisi responsabili di assassini sono diventati temi all’ordine del giorno per diversi governatori e sindaci statunitensi (anche solo come tentativo di calmierare le rivolte e le crisi di legittimità istituzionale che vi si accompagna) è perché il movimento reale è riuscito a imporre (e a esercitare praticamente) l’abolizione della polizia, la sua negazione radicale in quanto servizio pubblico. Abolizione che, pur parziale e limitata, è stata messa in programma proprio nella città epicentro della rivolta, con un voto storico del consiglio comunale. Nessun sciocco illudersi o cantar vittoria prima del tempo ma… chi l’avrebbe mai detto?

La partita è naturalmente apertissima, e non pochi saranno i tentativi di depotenziamento e di recupero istituzionale del movimento, anche in vista delle prossime elezioni presidenziali di novembre. Né si farà attendere, probabilmente, una ripresa di aggressività da parte dei gruppi neofascisti e suprematisti bianchi, che specie in seguito alla vittoria di Trump hanno conseguito un aumento di visibilità, seguito e organizzazione non trascurabili. A risultare decisiva, per la sorte del movimento, sarà la capacità di mantenere salde le alleanze sociali e i legami reali che questa rivolta ha reso possibili, lavorando per sottrarre sempre più territori e ambiti della vita al controllo statuale. L’estensione e la riproduzione delle zone autonome nei quartieri delle città è forse il compito più importante che questo movimento ha ora di fronte.

 

… e uno all’Italia.

 

Se vedere il centro dell’impero scosso dal conflitto di classe è sicuramente un bello spettacolo, limitarsi a fare il tifo per le rivolte degli altri è senza dubbio insufficiente, anzi è parte del problema. Che il razzismo sia una componente strutturale della società italiana, che si concretizza in una netta disuguaglianza di diritti socio-economici, in un mancato riconoscimento di questa disuguaglianza da parte del discorso pubblico – sono quasi sempre i bianchi a parlare dei neri, anche a sinistra – e infine in una disparità di trattamento da parte delle stesse forze dell’ordine tra “gli italiani a pieno titolo” e i soggetti razzializzati (la parola migranti è ormai del tutto insufficiente a definire un certo pezzo di società: basti pensare al numero crescente di persone nate e cresciute in Italia ma escluse dalla cittadinanza a causa di una legge sullo ius soli che ancora manca) è  un fatto sempre più evidente. Allo stesso tempo, però, non può bastarci una solidarietà decontestualizzata o perlopiù emotiva. Che cosa significa allora essere solidali con un movimento come Black Lives Matter?

In primo luogo, partire dalla posizione da cui parliamo, e saperla mettere a critica se occorre. È un esercizio che non può che partire da noi: siamo un gruppo di studenti, lavoratori e disoccupati composito per età e genere, ma uniformemente bianco. Negli ultimi anni ci siamo schierati in più occasioni, col nostro lavoro di informazione e con la nostra presenza in piazza, contro le politiche razziste e assassine dei migranti di Minniti prima e di Salvini poi. Ma, sostanzialmente, non siamo riusciti a fare questo con i migranti. Si tratta di un limite che ammettiamo in tutta umiltà e che assumiamo come un’insufficienza in termini politici. Questa consapevolezza ci ha spinto pertanto, non senza discussioni, ad una certa cautela rispetto a come interpretare il sentimento di solidarietà che anche qua in Italia si è manifestato in queste settimane, tra cui anche a Lucca giovedì 11 giugno.

Abbiamo scelto infatti di non aderire alla manifestazione cittadina convocata dal gruppo locale delle Sardine, da tutto l’associazionismo orbitante attorno al centro sinistra e dalle stesse istituzioni locali. In parte perché avvertiamo la contraddizione di una mobilitazione antirazzista che non parta dagli stessi soggetti che più patiscono questa piaga direttamente sulla loro pelle, in parte perché pensiamo che le ambiguità e le ipocrisie del PD e dei suoi satelliti siano parte integrante del problema razzismo in Italia. Allo stesso tempo, però, abbiamo visto in quella piazza la partecipazione di una componente giovanile e studentesca (perlopiù bianca, ma non solo) che non è riducibile a quel mondo. Non diversamente da altre piazze delle sardine, peraltro.

L’auspicio che facciamo è che questa nuova “attivazione di sensibilità”, per quanto risulti senza dubbio condizionata dalla copertura mediatica che ha avuto il brutale assassinio di George Floyd, si mantenga vigile e allergica ad ogni tentativo di strumentalizzazione, che non si spenga né resti nell’ambito dell’opinione e della solidarietà estemporanea, ma si traduca invece in un bisogno di attivazione più diretta sui terreni di oppressione economica e sociale che patiscono le classi popolari migranti o autoctone, da tutti e tutte coloro che sono, o si sentono, materialmente e culturalmente escluse dalla comunità nazionale.

Da questo punto di vista, l’aspra polemica sui resti del passato coloniale e razzista dell’Occidente, ancora oggetto di celebrazione monumentale in diverse città e per questo giustamente attaccato, vandalizzato o distrutto dal movimento negli Usa ma anche nella vecchia Europa, rappresenta un terreno scivoloso. Se l’abbattimento delle statue di schiavisti e colonialisti rappresenta infatti una pratica potente, una riscrittura della storia dal punto di vista degli oppressi e dei vinti, dove questa si accompagna a un movimento reale di lotta contro le forme di oppressione nel presente, come sta avvenendo negli Usa, rischia invece di ridursi a uno scontro culturale dentro il perimetro bianco, dove risulta in larga parte sconnesso da una mobilitazione antirazzista agita dagli stessi soggetti razzializzati. Uno scontro positivo e necessario, sia chiaro, ma che corre il rischio di risultare distante e irrelato dal piano delle condizioni di oppressione materiale che vivono  questi ultimi (oppressione che pure, non lo ignoriamo certo, si fonda anche su delle basi culturali, e su una memoria collettiva deteriore che non offre a questi soggetti dignità e riconoscimento).

Lo scontro sulla figura di Montanelli che ha finito per occupare il centro del dibattito pubblico sulla questione in Italia, ci pare emblematica in questo senso. La levata di scudi a favore del “grande giornalista”, stupratore e pedofilo mai pentito da parte dell’establishment politico-culturale italiano, la dice lunga sulla persistenza in ambito liberale di quel grumo di fascismo, razzismo e sessismo in cui sta scritta una parte notevole della nostra storia nazionale, una storia che continua evidentemente tuttora. Che questa storia venga sempre più messa sul banco degli imputati, lo ripetiamo, è senza dubbio necessario e giusto. E tuttavia non possiamo fare a meno di chiederci: quanto però, concentrandoci prevalentemente su questo, non si sta parlando della condizione lavorativa, abitativa, detentiva ecc. dei soggetti razzializzati qui in Italia, a partire dall’ascolto delle loro voci, dalle loro rivendicazioni ed esperienze di lotta? Perché le lotte dei lavoratori migranti nella logistica, nel tessile pratese, dei braccianti neri del Sud Italia, il diverso grado di violenza poliziesca che colpisce le persone non bianche in questo paese, non riesce a raccogliere pari sensibilità, coinvolgimento e attenzione? Perché la morte di un nero negli Stati Uniti sembra aprire gli occhi ma al contempo non fa vedere loro il razzismo strutturale e assassino che permea anche la nostra società?

Alla luce di questo interrogativo ci sentiamo quindi di dire che le piazze italiane più interessanti delle ultime settimane sono state quelle (come ad esempio Torino) dove si è manifestata un’eccedenza di partecipazione e protagonismo da parte dei soggetti stessi vittime del razzismo nostrano; che hanno messo in campo la determinazione e la rabbia necessaria per sottrarre la piazza a qualunque narrazione pacificante, a un’idea di solidarietà morale, a distanza, che non mette politicamente in discussione ciò che invece è quotidiano e vicino. Chiedere un applauso per le forze dell’ordine, come è avvenuto a Lucca da parte di uno degli organizzatori della manifestazione dell’11 giugno in Piazza Napoleone (trovando peraltro un’accoglienza assai fredda) ci dà un’idea significativa della distanza siderale che separa questo tipo di voce dalla determinazione e dalla radicalità che anima invece le rivolte americane.

No Justice, No Peace è un assunto che deve essere conseguente ad ogni reale e autentico I can’t breathe. Laddove si mette l’accento su quest’ultimo a scapito del primo, laddove si pone come sola degna di solidarietà ed empatia il ruolo della vittima, negando invece una complicità almeno ideale con la ribellione violenta resasi necessaria per fare paura a chi esercita professionalmente l’oppressione e provare a incidere davvero sullo stato di cose presente, si sta fraintendendo profondamente il senso delle rivolte USA, se ne sta confezionando solo una cartolina distorta. «Nessuno al mondo, nessuno nella storia, ha mai ottenuto la propria libertà facendo appello al senso morale delle persone che le stavano opprimendo» ebbe nitidamente a dire Assata Shakur, ex militante del Black Panther Party.

Viene da chiedersi in conclusione: cosa sarebbe accaduto se nella piazza di Lucca (ma la domanda è valida anche per molte altre) persone nere avessero tentato di esprimere rabbia contro la polizia, la nostra polizia (che quanto a razzismo difficilmente può dirsi innocente, a voler usare un eufemismo)? Cosa avrebbero fatto gli antirazzisti bianchi, a quel punto? Si sarebbero messi in mezzo, a fare magari da scudo non a loro ma ai poliziotti? Crediamo che questa domanda occorre che ogni antirazzista cominci seriamente a porsela. Non è detto che, in un futuro forse non lontano, sia una domanda destinata a rimanere soltanto ipotetica, o limitata a episodi sporadici.

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